a sei cavalli.
Capitolo 33.
I BRIGANTI.
Il giorno dopo Franz si svegliò per primo, e appena desto suonò.
Il tintinnio del campanello risuonava ancora quando Pastrini entrò
di persona.
"Ebbene!" disse l'albergatore trionfante, e senza aspettare che
Franz lo interrogasse. "Facevo bene ieri sera a non promettere
niente; avete aspettato troppo, e adesso non c'è neppure una
carrozza da nolo in Roma per tre giorni, s'intende."
"Sì" rispose Franz, "vale a dire per quelli in cui è assolutamente
necessaria!"
"Che c'è?" domandò Alberto entrando. "Non si trovano carrozze?"
"Precisamente mio caro amico" rispose Franz. "Avete indovinato al
primo colpo."
"Ah, è una gran bella città questa vostra città eterna!"
"Cioè, Eccellenza" riprese Pastrini, che desiderava mantenere la
capitale del mondo cristiano in un certo decoro in faccia ai
viaggiatori, "non vi sono più carrozze da domenica mattina a
martedì sera; ma da oggi a domenica ne troverete cinquanta, se lo
volete."
"Non è poco" disse Alberto. "Oggi è giovedì; chi sa di qui a
domenica quello che può accadere."
"Accadrà l'arrivo di dieci o dodici mila forestieri" rispose
Franz, ai quali renderanno la difficoltà sempre più grande."
"Amico mio" disse Morcerf, "godiamo del presente, non ci prendiamo
cura dell'avvenire."
"Almeno" domandò Franz, "potremo avere una finestra?"
"Su che strada?"
"Sul Corso, per Bacco!"
"Ah sì, una finestra" esclamò Pastrini, "impossibilissimo! Ne
restava una al quinto piano del palazzo Doria, ed è stata
affittata ad un principe russo per venti zecchini al giorno."
I due giovani si guardarono con aria stupefatta.
"Ebbene, mio caro" disse Franz ad Alberto. "Sapete ciò che torna
meglio di fare? Andare a finire il carnevale a Venezia; almeno là,
se non troviamo carrozze, troveremo gondole!"
"Ah, in fede mia" gridò Alberto, "ho deciso di vedere il carnevale
di Roma, e lo vedrò, fosse anche sopra una panchetta!"
"Bravo!" gridò Franz. "E' un'idea magnifica, particolarmente per
spegnere i moccoletti; ci maschereremo da Pulcinella e faremo un
effetto meraviglioso."
"Le Loro Eccellenze desiderano sempre la carrozza fino a
domenica?"
"Per Bacco" disse Alberto, "credete che noi siamo persone da
correre le strade di Roma a piedi come i portieri e i cursori?"
"Vado ad eseguire gli ordini delle Loro Eccellenze" disse
Pastrini, "le prevengo soltanto che la carrozza costerà sei scudi
al giorno."
"Ed io, caro Pastrini" disse Franz, "che non sono il milionario
nostro vicino, vi prevengo per parte mia che essendo la quarta
volta che vengo a Roma, conosco il prezzo delle carrozze per i
giorni ordinari, le domeniche e le feste; vi daremo dodici piastre
per oggi, domani e dopo domani, e voi ci troverete anche un non
piccolo guadagno."
"Ma Eccellenza..." disse Pastrini, tentando di ribellarsi.
"Andate, andate mio caro" disse Franz, "o vado io stesso a fare il
prezzo dal padrone delle scuderie, che conosco bene; è un vecchio
amico, mi ha già rubato non poco denaro, e, nella speranza di
rubarmene dell'altro, accetterà anche per un prezzo minore di
quello che vi offro; perdereste la differenza e per colpa vostra."
"Non vi prendete questo incomodo, Eccellenza" disse Pastrini col
sorriso dello speculatore di locanda che si confessa vinto, "farò
il meglio che potrò, e sarete contento."
"A meraviglia; ecco ciò che si chiama parlare."
"Quando volete la carrozza?"
"Fra un'ora."
"Fra un'ora sarà alla porta."
Un'ora dopo effettivamente la carrozza aspettava i due giovani;
era un modesto calesse, che per la solennità della festa era
salito al grado di carrozza di piazza. Ma quantunque di mediocre
apparenza, i due giovani sarebbero stati ben contenti di avere un
tale veicolo per gli ultimi tre giorni del carnevale.
"Eccellenza" gridò il servitore di piazza, vedendo Franz mettere
il naso alla finestra, "vuole che faccia avvicinare la carrozza al
palazzo?"
Per quanto Franz fosse abituato all'enfasi italiana, il suo primo
movimento fu di guardarsi intorno, ma a lui stesso venivano
rivolte quelle parole...
Franz era l'Eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era
l'albergo Londra.
Tutto il genio della nazione era in questa sola frase.
Franz ed Alberto discesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le
Loro Eccellenze allungarono le gambe sui posti davanti, e il
cicerone saltò sul sedile di dietro.
"Dove vogliono andare le Loro Eccellenze?"
"Prima a San Pietro e poi al Colosseo" disse Alberto da vero
parigino.
Ma non sapeva una cosa, cioè che ci vuole un giorno per vedere San
Pietro, e un mese per studiarlo.
La giornata fu tutta impiegata nel veder San Pietro.
D'improvviso i due amici si accorsero che il giorno declinava.
Franz cavò l'orologio: erano le quattro e mezzo. Ritornarono
all'albergo. Giunti alla porta, Franz dette ordine di tenersi
pronto per le otto; voleva far vedere ad Alberto il Colosseo al
chiaro di luna, come gli aveva fatto vedere San Pietro in pieno
giorno.
Allorché si fa vedere ad un amico una città, che si è già veduta,
ci si mette quella civetteria che si usa quando si indica una
donna della quale si è stati l'amante.
In conseguenza Franz indicò al cocchiere il suo itinerario: dovete
uscire dalla porta del Popolo, andare intorno alle mura esterne
della città, e rientrare dalla porta San Giovanni. In tal modo il
Colosseo compare d'improvviso, e senza che il Campidoglio, il
Foro, l'Arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina,
e la Via Sacra abbiano anticipato gli effetti di quelle maestose
rovine.
Si fermarono per il pranzo.
Pastrini aveva promesso ai suoi ospiti un eccellente desinare,
gliene dette uno passabile, non c'era nulla da dire.
Alla fine del pranzo entrò egli stesso. Franz sulle prime credette
che fosse venuto per ricevere i loro complimenti, e si apprestava
a farglieli allorché, alle prime parole, egli lo interruppe.
"Eccellenza" disse, "sono lusingato della vostra approvazione, ma
non è questo il motivo che mi ha fatto salire da voi."
"E' forse per venirci a dire che avete trovato la carrozza?"
domandò Alberto, accendendo un sigaro.
"Per niente, ed anzi, Vostra Eccellenza farà bene a non pensarci
più. In Roma le cose o si possono o non si possono. Quando vi si è
detto che non si possono, tutto è finito."
"A Parigi, è molto più comodo; quando una cosa non si può avere,
la si paga il doppio, e si ha sul momento ciò che si domanda."
"Sento sempre dire la stessa cosa da tutti i francesi" disse
Pastrini, un poco contrariato, "e non so comprendere come con
tante meraviglie che ci sono a Parigi, i parigini viaggino."
"Ma è così" disse Alberto, mandando flemmaticamente una fumata al
soffitto e rovesciando il capo indietro sulla poltrona, "non vi
sono che i pazzi, e gli oziosi come noi che viaggino, la gente di
buon senso non lascia la casa della rue Helder, il Bastione di
Gand, e il Caffè di Parigi."
Non è necessario dire che abitava nella strada suddetta, che tutti
i giorni faceva la sua passeggiata elegantemente vestito sul
Bastione di Gand, e che pranzava tutti i giorni al Caffè di Parigi
avendo confidenza coi camerieri.
Pastrini restò un momento silenzioso, era evidente che meditava
sulla risposta che gli aveva dato Alberto, risposta che senza
dubbio non gli pareva molto chiara.
"Ma infine" disse Franz a sua volta, interrompendo le riflessioni
geografiche del suo albergatore, "eravate venuto con qualche
scopo: volete esporci l'oggetto della vostra visita?"
"Oh è vero, eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto."
"Sicuramente."
"Avete l'intenzione di visitare il Coliseo!"
"Cioè il Colosseo."
"E' la stessa cosa."
"Sia."
"Avete detto al vostro cocchiere di uscire dalla porta del Popolo,
e fare il giro delle mura per rientrare dalla porta di San
Giovanni!"
"Queste sono le mie precise parole."
"Ebbene, questo itinerario è impossibile, o almeno molto
pericoloso."
"Pericoloso!? Perché?"
"A causa del famoso Luigi Vampa."
"Per prima cosa, mio caro Pastrini, chi è questo famoso Luigi
Vampa?" domandò Alberto. "Può essere famosissimo a Roma, ma vi
assicuro che è perfettamente sconosciuto a Parigi."
"Come, non lo conoscete?"
"Non ho quest'onore."
"Ebbene, è un bandito, vicino al quale i Decesaris e i Gasperoni
sono specie di chierichetti."
"Attenti!" Alberto gridò. "Franz, ecco dunque finalmente un
brigante! Vi prevengo, mio caro Pastrini, che non crederò una
parola di tutto ciò che state per dirci; ma parlate quanto volete,
vi ascolto."
"C'era una volta..."
"Avanti dunque."
Pastrini si volse dalla parte di Franz sembrandogli il più
ragionevole dei due giovani.
Bisogna rendere giustizia al brav'uomo: aveva alloggiati molti
francesi, ma non aveva mai ben capito ciò che essi chiamano il
loro spirito.
"Eccellenza" disse con gravità, volgendosi a Franz, "se mi credete
un cantastorie è inutile che vi dica ciò che volevo; posso però
assicurarvi che lo facevo per la premura che ho per le Loro
Eccellenze."
"Alberto non vi ha detto che siete un cantastorie, mio caro
Pastrini, vi ha detto soltanto che non vi crederà, ma io vi
crederò, state tranquillo: parlate dunque."
"Però convenite, Eccellenza, che se si mette in dubbio la
sincerità delle mie parole..."
"Mio caro, voi siete più suscettibile di Cassandra, che pure era
una indovina, e alla quale nessuno credeva; mentre voi siete
sicuro di essere creduto almeno dalla metà del vostro uditorio.
Sedetevi, diteci chi è questo signor Vampa?"
"Ve lo dissi, Eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo
mai avuto l'eguale dall'epoca di Mastrilli."
"Ebbene, che rapporto ha questo bandito con l'ordine che ho dato
al cocchiere di partire da porta del Popolo e di rientrare per
porta San Giovanni."
"C'è" rispose Pastrini, "che potreste uscir dall'una ma dubiterei
che potreste entrare per l'altra."
"E perché?" domandò Franz.
"Perché quando è notte, non c'è sicurezza in quelle contrade."
"Parola d'onore?" gridò Alberto.
Pastrini, sempre punto nel fondo dell'anima per i dubbi sulla sua
veracità, rispose:
"Signor conte, ciò che dico non è ver voi, e per il vostro
compagno di viaggio che conosce Roma e sa benissimo che su questi
argomenti non si scherza."
"Mio caro" disse Alberto volgendosi a Franz, "ecco un'ammirabile
avventura: empiamo il nostro calesse di pistole, tromboni, e
fucili a due canne. Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece
arrestiamo lui: lo portiamo a Roma, ne facciamo un omaggio al
Senato romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci
la sua riconoscenza, reclamiamo puramente e semplicemente una
carrozza e due cavalli delle scuderie del senatore: e negli ultimi
giorni, godiamo del carnevale in carrozza, senza calcolare che il
popolo romano riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio, e
proclamarci, come Curzio e Orazio Coclite, i salvatori della
patria."
"In primo luogo" domandò Franz ad Alberto, "dove prendere queste
pistole, questi tromboni, e questi fucili a due canne, coi quali
volete riempire la vostra carrozza?"
"Il fatto sta, che certamente non potrei prenderli nel mio
arsenale" diss'egli, "perché a Terracina mi è stato tolto perfino
il mio pugnale. E voi?"
"Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente."
"Così, mio caro Pastrini" disse Alberto accendendo un secondo
sigaro al residuo del primo, "sapete che questa è una fortuna
stramaledetta per quei banditi?"
"Sua Eccellenza sa che non c'è l'uso di difendersi quando si viene
aggrediti dai banditi" rispose Pastrini, che non voleva mettersi a
fare osservazioni sulle leggi d'oltralpe.
"Come?" gridò Alberto, il cui coraggio si rivoltava all'idea di
lasciarsi svaligiare senza dir niente, "come non c'è l'uso?"
"No, perché qualunque difesa sarebbe inutile. Che volete fare
contro una dozzina di assassini che escono da un fosso, da un
antro o da un acquedotto, e vi mettono nello stesso tempo le armi
alla gola?"
"Ah, per Bacco! voglio farmi ammazzare!" gridò Alberto.
L'albergatore si volse verso Franz con una espressione che voleva
dire: "Davvero, Eccellenza, il vostro camerata è pazzo".
"Mio caro Alberto" soggiunse Franz, "la vostra risposta è sublime,
e merita il "dovea morir!" del vecchio Cornelio; soltanto che,
quando Orazio rispondeva questo, si trattava della salvezza di
Roma, e la cosa era abbastanza importante: ma in quanto a noi non
si tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo arrischiare
la propria vita per soddisfare un tal capriccio."
"Ah, per Bacco!" gridò Pastrini, "alla buon'ora, questo si chiama
parlare!"
Alberto si versò un bicchiere di lacrimacristi, che bevve a
sorsate frammettendovi un brontolio di parole confuse che nessuno
poté intendere.
"Ebbene, Pastrini" rispose Franz, "ora che il mio compagno si è
calmato, e voi avete potuto apprezzare le sue intenzioni
pacifiche, sentiamo: chi è questo signor Luigi Vampa? E' giovane o
vecchio? E' contadino o patrizio? descrivetecelo affinché se lo
avessimo per caso da incontrare nella società, come Giovanni
Sbagar, o Lara, lo possiamo riconoscere."
"Non vi potevate rivolgere meglio che a me per averne esatti
particolari, poiché ho conosciuto Luigi Vampa da ragazzo, e un
giorno anzi che caddi nelle sue mani, andando da Ferentino ad
Alatri, si sovvenne, fortunatamente per me, della nostra antica
conoscenza, e non solo mi lasciò andare liberamente senza esigere
riscatto, ma volle farmi il regalo di un bell'orologio, e
raccontarmi tutta la sua storia."
"Vediamo l'orologio" disse Alberto.
Pastrini cavò dal taschino un magnifico orologio a cilindro di
Beguet col nome dell'autore, il bollo di Parigi e una corona da
conte.
"Eccolo qui" diss'egli.
"Poffare!" fece Alberto, "ve ne faccio i miei complimenti. Io ne
ho uno press'a poco come questo, che costa tremila franchi.
Eccolo..." e cavò l'orologio dal taschino del giubbetto.
"Sentiamo ora la storia" disse Franz, tirando una sedia, e facendo
segno a Pastrini di sedersi.
"Le Loro Eccellenze mi permettono..." disse l'albergatore.
"Per Bacco" disse Alberto, "non siete un predicatore, mio caro,
per parlare sempre in piedi."
L'albergatore si accomodò, dopo aver fatto un saluto rispettoso a
ciascuno dei suoi uditori come per far intendere che era pronto a
dar loro quei particolari ch'essi avessero domandato.
"A noi!" disse Franz interrompendo Pastrini al momento che stava
per aprire bocca. "Dicevate d'aver conosciuto Luigi Vampa quando
era ragazzo; è dunque molto giovane ancora?"
"Lo credo bene! Ha appena ventidue anni! E' un galeotto che ne
farà di strada, state sicuri."
"Che ne dite Alberto? E' una bella cosa a ventidue anni essersi
già fatta una reputazione" disse Franz.
"Sì certamente, alla sua età, Alessandro, Cesare e Napoleone non
erano tanto avanti, e sì che hanno fatto poi qualche rumore nel
mondo."
"E così" riprese Franz, volgendosi all'albergatore, "l'eroe di cui
ora sentiremo la storia, non ha che ventidue anni?"
"Appena, come ebbi l'onore di dirvi."
"E' grande o piccolo?"
"Di mezza statura, presso a poco come voi, signore" disse
l'albergatore, designando Alberto.
"Grazie del paragone" disse quegli, inchinandosi.
"Avanti, Pastrini" riprese Franz sorridendo della suscettibilità
del suo amico. "E a qual classe della società appartiene?"
"Era un semplice pastore, addetto alla fattoria del conte San
Felice situata fra Palestrina e il lago di Gabri: nacque a
Pampinara e fino dall'età di cinque anni entrò al servizio del
conte. Suo padre, pastore in Agnani, possedeva un piccolo gregge e
viveva della lana dei montoni e del prodotto delle pecore che
veniva a vendere a Roma. Fin da fanciullo il piccolo Vampa aveva
un'indole strana. Un giorno all'età di sette anni, andò a trovare
il curato di Palestrina, e lo pregò d'insegnargli a leggere. Era
una cosa assai difficile, perché il pastorello non poteva lasciare
le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa
in un piccolo borgo, troppo povero e troppo poco considerevole per
poter mantenervi un prete, e che, non avendo neppure un nome, era
conosciuto sotto quello di Borgo. Egli offrì a Luigi di trovarsi
sulla strada che percorreva nell'ora del ritorno, e di dargli così
la lezione, prevenendolo che questa sarebbe stata corta, e che per
conseguenza avrebbe dovuto applicarsi molto per renderla
profittevole. Il fanciullo accettò con gioia.
Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla strada
da Palestrina a Borgo; e la mattina alle nove il curato passava:
il prete ed il fanciullo si sedevano sull'orlo di un fosso e il
giovane pastorello prendeva lezione sul breviario del curato. Il
prete fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre esemplari
di alfabeto, uno grande, uno mezzano e l'altro piccolo, e gli fece
vedere che imitando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna,
con l'aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere. La
sera stessa, quando ebbe rinchiuso il gregge nell'ovile, il
piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio di Palestrina, prese un
grosso chiodo e lo arroventò, lo martellò, lo arrotondò, e ne
formò una specie di stiletto antico: l'indomani unì una quantità
di pezzi di lavagna, e si mise all'opera. Dopo tre mesi egli
sapeva scrivere.
Il curato meravigliato di questa profonda intelligenza, e
ammirando questa attitudine, gli fece regalo di parecchi quaderni
di carta, di alcune penne, e di un temperino. Allora ebbe a fare
un altro studio; ma uno studio che era ben poca cosa dopo il
primo. Otto giorni dopo maneggiava la penna come prima lo
stiletto. Il curato raccontò quest'aneddoto al conte di San
Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere
innanzi a sé, ordinò al suo intendente di farlo mangiare coi
domestici, assegnandogli due scudi al mese. Con questo denaro
Luigi comprò dei libri e delle matite. Difatti applicava a tutti
gli oggetti il suo spirito di imitazione, e, come Giotto
fanciullo, copiava sulle lavagne le pecore, gli alberi, le case.
Poi con la punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di
legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Pinelli, l'artista
popolare, aveva cominciato così.
Una ragazzina di sei sette anni, cioè poco più giovane di Vampa,
era pur essa alla custodia delle pecore in una vicina tenuta,
presso Palestrina: questa bambina era orfana, nata a Valmontone, e
si chiamava Teresa. I due fanciulli s'incontravano, sedevano l'un
presso all'altro, lasciavano i loro greggi mischiarsi e pascere
insieme, discorrevano, ridevano, scherzavano; poi la sera
separavano il gregge del conte San Felice da quello del barone
Cervetri e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi l'indomani.
L'indomani infatti mantenevano la parola, e intanto crescevano sia
l'uno che l'altra. I loro istinti naturali si svilupparono.
Accanto al gusto per le arti, che Luigi aveva spinto tant'oltre
quanto è permesso nella solitudine, egli era a tratti triste,
ardente, collerico per capriccio, burbero sempre. Nessuno dei
giovani di Pampinara, di Palestrina e di Valmontone aveva potuto,
non solo prendere alcuna influenza su di lui, ma neppure divenire
suo compagno. Il suo temperamento e l'essere sempre disposto ad
esigere, e non mai a lasciarsi piegare ad alcuna concessione, gli
allontanava ogni approccio amichevole, ed ogni dimostrazione di
simpatia. Teresa sola comandava con una parola, con un gesto, con
uno sguardo questa indole, che cedeva sotto la mano di una donna,
ma che sotto quella di un uomo si sarebbe irritata all'eccesso.
Teresa al contrario era vivace, vispa e gaia, ma eccessivamente
civettuola. I due scudi che Luigi riceveva dall'intendente di San
Felice, il ricavato di tutti i lavori d'intaglio che vendeva ai
mercanti di giocattoli in Roma, si tramutavano in orecchini di
perle, in collane di cristallo, in spilli di oro; per la
prodigalità del giovane amico, Teresa era la più bella e la più
elegante di tutte le contadine delle vicinanze di Roma.
I due giovani continuavano a crescere, passando la giornata
insieme, e si abbandonavano senza opposizione a tutti i moti della
loro natura; così nelle conversazioni, nei loro desideri, nei loro
castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello, o
governatore di una provincia; Teresa si vedeva ricca, vestita
delle più belle stoffe, seguita da servitori in livrea. Quando
avevano passata un'intera giornata ad abbellire il loro avvenire
di questi folli e brillanti sogni, si separavano per ricondurre
ciascuno il suo gregge alla stalla, ricadendo dall'altezza dei
sogni alla umiliante realtà della loro condizione. Il giovane
pastore disse un giorno all'intendente del conte, che aveva veduto
un lupo uscir dalle montagne della Sabina e ronzare attorno al
gregge. L'intendente gli dette un fucile; era ciò che ambiva
Vampa. Questo fucile aveva un'eccellente canna di Brescia che
sparava come una carabina inglese; l'incassatura soltanto era
stata in qualche modo guastata dal conte, mentre dava la caccia
alle volpi, e per questo il fucile messo fra gli scarti. Non c'era
difficoltà per un intagliatore come Vampa. Esaminò la forma
primitiva, calcolò ciò che bisognava cambiare per metterlo a
posto, e fece un'altra incassatura zeppa di ornamenti così
meravigliosi che certamente avrebbe potuto guadagnarci una ventina
di scudi, dal solo incasso, se fosse venuto a venderlo in città.
Ma non lo vendette: un fucile era stato da gran tempo il sogno del
giovane.
In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuore forte, ogni
giovane vigoroso, è quello di un'arma, che assicuri nello stesso
tempo l'assalto e la difesa, e facendo terribile chi la porta
spesso lo fa temuto. Da quel giorno Vampa impiegò nell'esercizio
del fucile tutt'i momenti che gli rimanevano liberi: comprò della
polvere e delle pallottole, e tutto gli serviva di bersaglio: il
tronco di un ulivo, triste, pallido e cenerino, che vegeta sul
declivio delle montagne della Sabina; la volpe, che nella sera
usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l'aquila, che
s'innalza per l'aria. Ben presto diventò così valente, che Teresa,
superato quel primo moto di paura causata dalla detonazione, si
divertiva nel vedere il giovane compagno colpire dove aveva
indicato, così precisamente come avesse accompagnato il tiro con
la mano.
Una sera, un lupo uscì effettivamente da un buco, vicino al quale
i due giovani avevano l'abitudine di stare; il lupo non aveva
fatti dieci passi sulla pianura che già era morto. Vampa, fiero di
questo bel colpo, se lo caricò sulle spalle e lo portò alla
fattoria. Tutti questi particolari davano a Luigi una certa
reputazione nei dintorni della fattoria: l'uomo superiore in
qualunque luogo si trovi si forma una clientela d'ammiratori. Nei
luoghi circonvicini si parlava di questo giovane pastore come del
più destro, del più forte, e del più bravo contadino che fosse a
dieci leghe di distanza, e quantunque Teresa, in una zona più
estesa ancora, passasse per la più bella delle ragazze della
Sabina, pure nessuno si arrischiava a dirle una parola d'amore,
perché la si sapeva amata da Vampa. E frattanto i due giovani non
si erano mai detti che si amavano. Avevano vissuto l'uno accanto
all'altro, come due alberi che uniscono le radici nel suolo che
intrecciano i rami nell'aria, il profumo nel cielo; soltanto era
in loro lo stesso desiderio di vedersi: questo desiderio divenne
bisogno, ed era per loro assai più facile comprendere la morte che
una separazione, anche di un sol giorno. Teresa aveva allora
sedici anni e Vampa diciassette.
In quel tempo si cominciava a parlare molto di una banda di
briganti che si rintanava sui monti Lepini. Il brigantaggio, per
quanto efficaci furono le misure prese, non è mai stato
completamente sconfitto nelle nostre campagne. Qualche volta manca
un capo, ma, quando se ne presenta uno, è difficile che manchi di
una banda. Il celebre Cucumetto, perseguitato negli Abruzzi,
cacciato dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra, aveva
traversato il Garigliano come Manfredi, ed era venuto fra Sonnino
e Giuperno, a rifugiarsi sulle rive dell'Amasina, egli si occupava
a riordinare una banda che avrebbe camminato sulle onde di
Gasparone e di Decesaris, che sperava ben presto di superare.
Molti giovani di Palestrina, di Frascati e di Pampinara
scomparvero da casa. Sulle prime, si stette in pena sul loro
conto, ma ben presto si seppe ch'erano andati a raggiungere la
banda di Cucumetto. In capo a poco tempo Cucumetto diventò
l'oggetto dell'attenzione generale. Venivano ovunque citate
imprese di questo capo bandito di estrema audacia, e di rivoltante
brutalità.
Un giorno rapì una ragazza, la figlia d'un agrimensore di
Frosinone. Le leggi dei banditi sono positive: una giovane
appartiene da prima a colui che la rapì; poi gli altri la tirano a
sorte fra loro, e l'infelice serve ai piaceri di tutta la banda
fino a che i banditi l'abbandonino o muoia. Quando i parenti sono
ricchi abbastanza per riscattarla, si manda un messaggero che
tratta la taglia; la testa della prigioniera risponde della fede
dell'emissario. Se la taglia è ricusata, la prigioniera è
irrevocabilmente condannata.
La giovane aveva nella banda di Cucumetto il suo amante che si
chiamava Carlini. Riconoscendo il giovane, gli tese le braccia, e
si credette salva. Ma il povero Carlini riconoscendola sentì
spezzarglisi il cuore, perché non si faceva illusioni sulla triste
sorte che l'aspettava.
Tuttavia essendo il favorito di Cucumetto, e partecipando da tre
anni a tutti i suoi pericoli, e avendogli salvata la vita,
uccidendo con un colpo di pistola un gendarme che aveva già levata
la sciabola, sperò che costui avrebbe avuto un po' di pietà. Lo
chiamò a parte, mentre la giovane appoggiata contro il tronco di
un pino in una radura della foresta tutta nuda e ricoperta
soltanto della pittoresca capigliatura delle contadine romane,
nascondeva il viso ai lussuriosi sguardi dei banditi. Carlini
raccontò tutto al suo capo, i suoi amori con la prigioniera, i
loro giuramenti di fedeltà, e come ogni notte, quando la banda era
in quei dintorni, i due amanti si davano convegno in un luogo
appartato.
Quella sera appunto Cucumetto aveva mandato Carlini in un
villaggio, e così non aveva potuto trovarsi al convegno; ma
Cucumetto vi era giunto per caso ed aveva così rapita la ragazza.
Carlini supplicò il suo capo di fare un'eccezione e rispettar
Rita, dicendogli che il padre era ricco, e avrebbe sborsato una
buona somma per riscattarla.
Cucumetto parve arrendersi alle preghiere dell'amico, e lo
incaricò di trovare un contadino da poter mandare dal padre di
Rita a Frosinone. Carlini allora si avvicinò alla ragazza, le
disse all'orecchio che era salva, e la invitò a scrivere a suo
padre una lettera su quanto le era accaduto annunciandogli che la
somma del riscatto era fissata a trecento piastre. Al padre non si
dava che dodici ore, vale a dire fino alle nove del mattino del
giorno seguente.
Scritta la lettera, Carlini corse alla pianura per cercarvi un
messaggero. Trovò un giovane che faceva pascolare il suo gregge. I
messaggeri naturali dei briganti sono i pastori, che vivono fra la
città e la campagna, tra la vita selvaggia e la vita incivilita.
Il giovane pastore partì subito, promettendo di essere prima di
un'ora a Frosinone.
Carlini tornò subito, gaio e contento, a raggiungere la sua amante
ed annunciarle la buona novella. La banda era al medesimo posto e
cenava allegramente con le provvigioni che i briganti prendevano
ai contadini come tributo: fra quegli allegri convitati Carlini
cercò inutilmente Cucumetto e Rita. Domandò dove fossero; i
banditi risposero con uno scroscio di risa.
Un freddo sudore gli bagnò la fronte, e parve che l'angoscia lo
prendesse per i capelli.
Rinnovò la sua domanda. Uno dei convitati riempì un bicchiere di
vino di Orvieto e glielo tese dicendo:
"Alla salute del bravo Cucumetto e della bella Rita!"
In quel momento Carlini credette di udire un grido di donna:
indovinò tutto. Prese il bicchiere e lo spezzò sulla faccia di
colui che glielo aveva offerto, poi si slanciò nella direzione del
grido.
A cento passi, alla svolta di un cespuglio, trovò Rita svenuta
nelle braccia di Cucumetto. Scorgendo Carlini, Cucumetto si alzò
tenendo in ognuna delle mani una pistola. I due banditi si
guardarono un istante: l'uno, il sorriso della lussuria sulle
labbra; l'altro, il pallore della morte sulla fronte. Si sarebbe
creduto che tra questi due uomini stesse per succedere qualche
cosa di terribile. Ma a poco a poco i lineamenti di Carlini
cominciarono a calmarsi: la mano, che aveva portato ad una delle
pistole che pendevano dalla cintura, si ritrasse di lato. Rita era
coricata fra loro due.
La luna rischiarava la scena.
"Ebbene?" disse Cucumetto, "hai fatto la commissione di cui eri
incaricato?"
"Sì, capitano" rispose Carlini, "domani, prima delle nove, il
padre di Rita sarà qui col denaro."
"A meraviglia! Intanto, mentre l'aspetto, noi vogliamo passare un
allegra notte. Questa giovane è magnifica, e tu hai davvero buon
gusto, mastro Carlini. Così, non sono egoista, torniamo ai nostri
camerati per tirare a sorte colui cui ora deve appartenere."
"Siete deciso ad abbandonarla alla legge comune?" chiese Carlini.
"E perché si dovrebbe fare eccezione in suo favore?"
"Avevo creduto che alla mia preghiera..."
"E che, sei tu più degli altri?"
"E' giusto.'
"Ma sta' tranquillo" rispose Cucumetto ridendo, "prima o dopo,
verrà la tua volta..."
I denti di Carlini si serrarono al punto che parevano spezzarsi.
"Andiamo" disse Cucumetto, facendo un passo verso i convitati.
"Vieni tu?"
"Vi seguo..."
Cucumetto si allontanò, senza perdere di vista Carlini, perché
temeva che volesse colpirlo di dietro, ma niente nel brigante
tradiva un'intenzione ostile. Era in piedi, le braccia conserte,
presso Rita sempre svenuta.
Cucumetto pensò per un istante che il giovane la prendesse fra le
braccia o fuggisse con lei. Ma ciò poco gli importava: da Rita
aveva avuto quel che voleva; quanto al danaro, trecento piastre
divise fra la banda, faceva una così povera somma che ben poco
gliene importava.
Continuò dunque il suo cammino verso i briganti; ma, con suo gran
stupore, Carlini arrivò quasi prima di lui.
L'estrazione a sorte! l'estrazione a sorte!" gridavano tutti i
banditi, nello scorgere il loro capo.
E gli occhi di tutti quegli uomini sfavillarono di ebbrezza, e di
lascivia, mentre la fiamma del fuoco acceso gettava su tutti una
luce rossastra che li faceva somigliare a demoni.
La loro domanda era giusta: e però il capo fece un cenno colla
testa, condiscendeva. Tutti i nomi furono subito messi in un
cappello, compreso quello di Carlini, e il più giovane della banda
tirò un bullettino dall'urna improvvisata. Quel bullettino portava
il nome di Diavolaccio; era quello stesso che aveva proposto a
Carlini di bere alla salute del capo, e a cui Carlini aveva
risposto col spezzargli il bicchiere sulla faccia.
Diavolaccio, vedendosi favorito dalla fortuna, diede in uno
scoppio e risa.
"Capitano" disse, "poco fa, Carlini non ha voluto bere alla vostra
salute; proponetegli ora di bere alla mia... Avrà forse più
riguardo per voi che per me."
Ognuno aspettava una reazione violenta di Carlini; ma, con grande
stupore di tutti, prese con la mano un bicchiere, con l'altra un
fiasco riempiendo il bicchiere:
"Alla tua salute, Diavolaccio!" disse con voce perfettamente
calma, e tracannò il contenuto del bicchiere senza che per nulla
tremasse la sua mano.
Poi, sedendosi accanto al fuoco:
"La mia porzione di cena!" disse. "La corsa fatta mi ha ridestato
l'appetito."
"Viva Carlini!" gridarono i briganti.
"Alla buon'ora, ecco ciò che si dice prender la cosa da buon
compagno."
E tutti formarono circolo intorno al fuoco, mentre Diavolaccio si
allontanava.
Carlini mangiava e beveva, come nulla fosse accaduto. I briganti
lo guardavano stupefatti; essi non comprendevano quella
impassibilità, quando intesero dietro di loro un passo pesante. Si
voltarono, e scorsero Diavolaccio, che tra le braccia aveva la
ragazza. Lei aveva la testa rovesciata, e i lunghi capelli fino a
terra.
Mentre entravano nello spazio rischiarato dal fuoco, si accorsero
del pallore della donna e del bandito. Quella apparizione aveva
qualcosa di così strano e di solenne che tutti si alzarono,
eccetto Carlini, che restò seduto, e continuò a bere e mangiare
come nulla accadesse intorno lui.
Diavolaccio continuava ad avanzarsi in mezzo al più profondo
silenzio e depose Rita ai piedi del capitano.
Allora tutti poterono vedere la causa del pallore della donna del
bandito. Rita aveva un coltello conficcato sino al manico sotto la
poppa sinistra.
Tutti gli sguardi si portarono su Carlini; la guaina del coltello
pendeva vuota alla sua cintura.
"Ah, ah" disse il capo, "ora comprendo perché Carlini era rimasto
indietro."
Ogni natura selvaggia è capace di apprezzare una forte azione;
quantunque forse nessuno di quei banditi avrebbe fatto ciò che
aveva fatto Carlini, tutti però compresero la sua azione.
"Ebbene" disse Carlini alzandosi, ed a sua volta avvicinandosi al
cadavere, la mano sulla impugnatura di una pistola, "c'è ancora
qualcuno qui che mi disputa questa donna?"
"No" disse il capo. "E' tua."
Allora Carlini la prese fra le braccia, e la portò al di là dello
spazio illuminato dalla fiamma.
A mezzanotte la sentinella dette la sveglia, e in un istante tutti
furono in piedi, il capo e i suoi compagni. Era il padre di Rita,
che andava egli stesso a portar la somma per il riscatto di sua
figlia.
"Tieni" disse a Cucumetto, porgendogli un sacco di denaro, "ecco
trecento piastre, rendimi la mia figliola."
Ma il capo, senza prendere il denaro, gli fece cenno di seguirlo.
Il vecchio obbedì; tutti e due si allontanarono sotto gli alberi,
attraverso i cui rami filtravano i raggi della luna. Finalmente
Cucumetto si fermò mostrando al vecchio un gruppo di due persone
ai piedi di un albero.
"Tieni" disse, "domanda a Carlini, egli te ne renderà conto."
E se ne tornò verso i suoi compagni.
Il vecchio restò immobile, gli occhi fissi. Sentiva che qualche
sventura ignota, immensa, inaudita gravava su di lui. Al rumore
che il vecchio faceva avanzandosi, Carlini alzò la testa, e le
forme delle due persone cominciarono ad apparire più distinte agli
occhi di lui.
Una donna era coricata per terra, la testa appoggiata sulle
ginocchia di un uomo seduto, chinato su di lei; nell'alzar la
testa quell'uomo aveva scoperto il volto della donna, che teneva
serrato contro il petto. Il vecchio riconobbe sua figlia, e
Carlini riconobbe il vecchio.
"Io t'aspettavo..." disse il bandito al padre di Rita.
"Miserabile!" disse il vecchio. "Che hai fatto?"
E guardava con terrore Rita, pallida, immobile, insanguinata, con
un coltello nel petto.
Un raggio di luna la rischiarava della sua pallida luce.
"Cucumetto aveva violata tua figlia" disse il bandito, "e siccome
io l'amavo, l'ho uccisa; poiché, dopo di lui, sarebbe stata lo
zimbello di tutta la banda."
Il vecchio non pronunziò una parola; solamente divenne pallido
come uno spettro.
"Ed ora" disse Carlini, "se ho avuto torto, vendicala!"
E strappato il coltello dal seno della fanciulla, levandosi in
piedi, lo porse al vecchio, mentre coll'altra mano slacciava la
camicia sul petto, offrendolo nudo.
"Tu hai ben fatto..." disse il vecchio con voce sorda.
"Abbracciami, figlio mio."
Carlini si gettò singhiozzando fra le braccia del padre della sua
amante: erano le prime lacrime che versava quell'uomo sanguinario.
"Ed ora" disse ancora il vecchio a Carlini, "aiutami a seppellire
mia figlia."
Carlini andò a cercare due zappe, e il padre e l'amante si misero
a scavar la terra ai piedi di una quercia, i cui folti rami
dovevano far ombra sulla tomba della fanciulla.
Quando la fossa fu scavata, il padre abbracciò Rita per primo,
dopo abbracciò l'amante. Quindi, prendendola l'uno per i piedi,
l'altro per le spalle, la scesero nella fossa. Ciò fatto,
s'inginocchiarono ai due lati della tomba, e recitarono le
preghiere dei morti. Quando ebbero terminato gettarono terra sul
cadavere sino a che la fossa fu colma. Allora, stendendogli la
mano: "Io ti ringrazio, figliolo..." disse il vecchio a Carlini.
"Ora lasciami solo.
"Ma intanto..." disse costui.
"Lasciami..., te l'ordino."
Carlini obbedì: andò a raggiungere i suoi compagni si avviluppò
nel mantello, e ben presto parve addormentato profondamente come
gli altri.
Il giorno prima era stato deciso che la banda avrebbe cambiato
rifugio. Un'ora prima del giorno, Cucumetto svegliò i suoi uomini
e fu dato l'ordine di partenza; ma Carlini non volle lasciare la
foresta senza sapere che ne fosse del padre di Rita. Si diresse
verso il luogo dove lo aveva lasciato. Trovò il vecchio appiccato
ad uno dei rami della quercia sulla tomba della figlia.
Sul cadavere dell'uno e sulla fossa dell'altra, fece allora il
giuramento di vendicarli entrambi. Ma quel giuramento non lo poté
mantenere perché due giorni dopo, in uno scontro coi gendarmi
romani, Carlini fu ucciso. Solamente qualcuno si stupì che avesse
ricevuto una pallottola fra le spalle, mentre s'era tenuto sempre
in faccia al nemico. Lo stupore cessò quando uno dei briganti fece
osservare ai compagni che Cucumetto era dieci passi dietro Carlini
quando costui era caduto colpito.
La mattina della partenza dalla foresta di Frosinone aveva seguito
Carlini nell'oscurità, aveva inteso il giuramento fatto, e da uomo
cauto lo aveva preceduto.
Si raccontavano ancora su cotesto terribile capobanda altre storie
non meno strane di questa. Così da Fondi a Perugia tutti tremavano
al solo nome di Cucumetto.
Le storie di ogni genere su questo capo bandito formavano spesso
l'oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa. La pastorella
tremava molto a questi racconti; ma Vampa la tranquillava battendo
in terra il suo bel fucile. Poi, quando non era del tutto
tranquilla, le faceva vedere un qualche corvo posato sopra una
frasca secca di un albero, metteva il fucile alla guancia, premeva
sul grilletto, e l'animale colpito cadeva ai piedi dell'albero.
Frattanto il tempo passava, i due giovani avevano stabilito di
sposarsi quando Vampa avesse avuto venti anni, Teresa diciannove.
Erano orfani entrambi; entrambi non avevano altri permessi da
chiedere che quello dei loro progetti per l'avvenire. Un giorno
che parlavano dei loro proponimenti intesero due o tre colpi di
fucile, quindi un uomo uscì dal bosco presso il quale i due
giovani erano soliti far pascolare gli armenti, e corse verso di
loro.
Giunto a portata di voce, gridò tutto ansante:
"Sono inseguito, potete nascondermi?"
I due giovani riconobbero ben presto nel fuggitivo un bandito: ma
fra il bandito ed il contadino romano vi è una innata simpatia,
per cui il secondo è sempre disposto a rendere un favore al primo.
Vampa, senza dire una parola, corse ad una pietra, che chiudeva
l'ingresso di una grotta, scoprì l'entrata tirando a sé la pietra,
fece segno al fuggitivo di entrare in questo asilo sconosciuto a
tutti, rimise la pietra e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Quasi
subito quattro gendarmi a cavallo comparvero sul confine del
bosco. Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto
trascinava per il collo un bandito prigioniero. Essi esplorarono
il luogo con un colpo d'occhio, s'accorsero dei due giovani,
corsero di galoppo alla loro volta, e li interrogarono; ma questi
risposero che nulla avevano veduto.
"E' spiacevole" disse il brigadiere, "perché quello che cerchiamo
è il capo."
"Cucumetto?" non poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e
Teresa.
"Sì" rispose il brigadiere, "e siccome la sua testa porta la
taglia di mille scudi romani, così voi ne avreste guadagnati
cinquecento se ci aveste aiutati a prenderlo."
I due giovani si guardarono. Il brigadiere ebbe un raggio di
speranza. Cinquecento scudi romani fanno circa tremila franchi e
tremila franchi sono una fortuna per due poveri orfanelli sul
punto di maritarsi.
"Sì, è spiacevole" disse Vampa, "ma non abbiamo visto nessuno."
Allora i gendarmi percorsero il luogo in tutte le direzioni, ma
inutilmente: quindi disparvero. Allora Vampa andò a togliere la
pietra, e Cucumetto uscì.
Egli aveva visto attraverso una fessura del macigno i due giovani
discorrere coi gendarmi. Non aveva alcun dubbio sull'argomento
della conversazione: aveva letto sul volto di Teresa e di Luigi
l'inalterabile risoluzione di non consegnarlo. Cavò di tasca una
borsa d'oro per farne loro dono. Ma Vampa rialzò la testa con
fierezza: quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando a tutto
ciò che avrebbe potuto comprare, ricchi gioielli, e begli abiti,
con quella borsa d'oro.
Cucumetto era un demonio molto abile, solo aveva preso la forma di
bandito invece di serpente. S'accorse di questo sguardo, riconobbe
in Teresa una degna figlia d'Eva, e rientrò nella foresta
volgendosi più volte, col pretesto di salutare i suoi liberatori.
Il tempo di carnevale si avvicinava, il conte di San Felice
annunziò un gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma
aveva di più elegante. Teresa aveva gran voglia di vedere questo
ballo.
Luigi domandò al suo protettore, l'intendente, il permesso di
assistervi per lui e per lei, nascosti in mezzo alla servitù della
casa; permesso che venne loro accordato.
Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata
a sua figlia Carmela ch'egli adorava. Carmela era precisamente
dell'età e della figura di Teresa e tanto bella quanto lei. La
sera del ballo Teresa si mise quanto aveva di più bello, i suoi
spilli di maggior valore, i gioielli di cristallo più rilucenti.
Aveva il costume delle donne di Frascati; Luigi aveva l'abito
pittoresco del villico romano in giorno di festa. Entrambi, si
mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori ed i paesani.
Il festino era magnifico. Non solo la villa era tutta illuminata,
ma migliaia di lampioni a colori erano appesi ai rami degli alberi
nel giardino: ben presto l'onda degli accorsi straripò dal palazzo
sulle terrazze, e dalle terrazze nei viali. Ad ogni crociera vi
era una orchestra, e rinfreschi ;coloro che passeggiavano si
fermavano, formavano delle quadriglie e ognuno ballava dove più
gli piaceva. Carmela portava il costume delle donne di Sonnino:
aveva la pettinatura intrecciata di perle, gli spilli dei capelli
d'oro e di diamanti, il busto era di seta turca a gran fiori di
broccato, la giubba e le gonnelle di cachemire, i1 reggiseno di
mussola delle Indie, i bottoni della giubba altrettante pietre
preziose. Due delle sue compagne portavano il costume delle donne
della Riccia.
Quattro giovani dei più ricchi e delle famiglie più nobili di Roma
l'accompagnavano, vestiti da contadini d'Albano di Velletri di
Civita Castellana, e di Sora. Questi costumi da contadini, come
quelli da contadini erano risplendenti d'oro e di pietre. Venne a
Carmela l'idea di fare una quadriglia; mancava però una donna.
Carmela guardò intorno a sé, e fra le invitate non trovò alcuna
che portasse un costume analogo al suo ed a quello delle compagne.
Il conte di San Felice le mostrò fra le contadine Teresa, che
stava appoggiata al braccio di Luigi.
"Me lo permettete, padre mio?" disse Carmela.
"Senza dubbio!" rispose il Conte. "Non siamo a carnevale?"
Carmela si accostò ad un giovane che l'accompagnava, e gli disse
alcune parole a bassa voce, indicandogli col dito la ragazza. Il
giovane si volse, seguì cogli occhi la direzione della bella mano,
fece un gesto di obbedienza, e andò ad invitare Teresa perché
venisse a figurare nella quadriglia diretta dalla figlia del
Conte.
Teresa sentì come una fiamma salirle al viso. Interrogò con uno
sguardo Luigi: non c'era mezzo di rifiutare. Luigi lasciò
lentamente sdrucciolare il braccio di Teresa, e Teresa si
allontanò condotta dal suo elegante cavaliere, e tutta tremante
venne a prendere posto nella quadriglia aristocratica.
Certamente, per un artista, l'esatto e severo costume di Teresa
avrebbe avuto tutt'altro carattere che quello di Carmela e delle
sue compagne; ma Teresa era una ragazza frivola e civetta: i
ricami sulla mussola, le palme della cintura, lo splendore del
cachemire l'abbagliavano, il riflesso degli zaffiri e dei diamanti
la rendevano ebbra.
Dall'altra parte, Luigi sentiva nascere in sé un sentimento
sconosciuto era come un dolore sordo che mordesse sulle prime il
cuore, e di là corresse fremendo nelle sue vene e s'impadronisse
di tutto il corpo.
Egli non perdeva un momento d'occhio i piccoli movimenti di Teresa
e del suo cavaliere; allorché le loro mani si toccavano, provava
delle vertigini, le arterie gli battevano con violenza, e si
sarebbe detto che il suono di una campana ripercuotesse le
vibrazioni nelle sue orecchie.
Quando parlavano fra di loro, quantunque Teresa ascoltasse
timidamente e con gli occhi bassi i discorsi del cavaliere,
siccome Luigi leggeva negli occhi ardenti del bel giovane che
erano elogi, gli sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che
tutte le voci dell'inferno gli soffiassero impulsi di omicidio.
Allora, temendo di lasciarsi trasportare a qualche pazzia si
aggrappava con una mano all'albero contro il quale era appoggiato
e con l'altra stringeva con un movimento convulso il pugnale dal
manico intagliato, che era nella sua cintura, e che senza
accorgersene qualche volta cavava dal fodero quasi interamente.
Luigi era geloso: capiva che Teresa poteva sfuggirgli, trasportata
dalla sua natura orgogliosa e ambiziosa, e frattanto la
contadinella, che sulle prime era timida e quasi spaventata, si
mise presto a suo agio.
Si disse che Teresa era bella. Questo però non era tutto. Teresa
era di quella grazia selvaggia molto più possente che la nostra
grazia studiata ed affettata. Ebbe quasi gli onori della
quadriglia, e se fu invidiosa della figlia del conte di San
Felice, non oseremo dire che Carmela non fosse gelosa di lei.
Così a forza di complimenti il suo bel cavaliere la ricondusse
dove l'aspettava Luigi.
Due o tre volte, nel tempo del ballo, la ragazza aveva volto lo
sguardo su lui, e ogni volta lo aveva visto più pallido, e con i
lineamenti più alterati. Una volta i suoi occhi rimasero
abbagliati da un lampo di sinistro augurio, nel vedere la lama del
coltello cavata per metà dal fodero; quasi tremando riprese il
braccio dell'amante.
La quadriglia ebbe momenti felici; sembrava evidente che si
sarebbe proposto di ripeterla una seconda volta. Carmela sola si
opponeva, ma il conte di San Felice pregò tanto teneramente la
figlia, che finalmente acconsentì.
Subito uno dei cavalieri si lanciò per invitare Teresa, senza la
quale era impossibile che si potesse fare la quadriglia, ma la
giovinetta era già sparita.
Infatti Luigi non avrebbe sopportato un secondo ballo, e con la
persuasione e con la forza, aveva trascinato Teresa da un altro
lato del giardino. Teresa aveva ceduto suo malgrado; ma aveva
visto il volto alterato del giovane, e capiva dal suo silenzio,
interrotto da un fremito nervoso, che in lui avveniva qualche cosa
di strano. Lei pure non era esente da un'interna agitazione; e
quantunque non avesse fatto niente di male, comprendeva che Luigi
avrebbe avuto ragione di farle dei rimproveri. Su che? Non lo
sapeva, ma si accorgeva che sarebbero stati ben meritati.
Con gran sorpresa di Teresa stette muto, e durante il rimanente
della sera le sue labbra non dissero più una parola. Solo,
allorché il freddo della notte aveva costretti tutti gli invitati
a lasciare i giardini, e le porte della villa furono chiuse per
dar luogo alla festa interna, ricondusse a casa Teresa. Poi,
quando fu sulla soglia, le disse:
"Teresa, che pensavi, quando ballavi dirimpetto alla contessina di
San Felice?"
"Pensavo" rispose la ragazza con tutta la franchezza dell'animo
suo, "che darei la metà della mia vita per essere vestita come
lei."
"E che ti diceva il cavaliere?"
"Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e non dovevo dire che una
parola per ottener questo."
"Aveva ragione" rispose Luigi. "Lo desideri tu così ardentemente
come dici?"
"Sì."
"Ebbene l'avrai."
La ragazza alzò la testa per interrogarlo, ma il viso era così
tetro e così terribile, che la parola le si ghiacciò sulle labbra.
D'altra parte dicendo queste parole Luigi si era allontanato.
Teresa lo seguì con gli sguardi fra le tenebre fino a che poté
scorgerlo. Poi quando fu sparito, rientrò sospirando nella sua
cameretta.
Quella medesima notte accadde un grande avvenimento che fu
giudicato prodotto, senza alcun dubbio, dall'imprudenza nel
trafficare coi lumi: la villa San Felice prese fuoco, proprio
dalla parte dell'appartamento della bella Carmela. Svegliata nel
mezzo del sonno dalle fiamme era saltata dal letto, si era avvolta
nella veste da camera, ed aveva tentato di fuggire dalla porta; ma
il corridoio per il quale bisognava passare era già tutto in preda
all'incendio. Allora rientrò nella sua camera, chiamando ad alte
grida soccorso. Quando la sua finestra posta a venti piedi dal
suolo si aperse, un giovane contadino si lanciò nell'appartamento,
la prese fra le braccia, e con una forza e destrezza sovrumane la
trasportò sull'erba del prato dove rimase svenuta.
Allorché riprese l'uso dei sensi, il padre le era vicino, tutti i
servitori la circondavano portando soccorsi. Un lato intero della
villa fu bruciato ma non importava, poiché Carmela era sana e
salva.
Venne ovunque cercato il suo liberatore, ma questi non ricomparve
più: fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva veduto.
Quanto a Carmela, era così turbata che non lo aveva riconosciuto.
Siccome il conte era immensamente ricco, se si eccettua il
pericolo corso da Carmela, e che gli sembrò dal modo miracoloso
con cui era stata salvata, piuttosto un novello favore della
Provvidenza che una disgrazia reale, fu ben poca cosa per lui la
perdita di ciò che avevano consumato le fiamme.
L'indomani nell'ora consueta i due giovani si ritrovarono sul
confine della foresta.
Luigi era arrivato per primo. Egli venne incontro alla ragazza con
molta allegria, e sembrava aver completamente dimenticata la scena
della sera innanzi.
Teresa era manifestamente pensierosa, ma vedendo la disposizione
d'animo di Luigi, simulò un'allegra noncuranza che era la base
della sua indole, quando qualche passione non veniva a
disturbarla.
Luigi prese sotto il braccio Teresa, e la condusse fino
all'apertura della grotta. Là si fermò. La pastorella conoscendo
che doveva esserci qualche cosa di straordinario, lo guardò
fissamente.
"Teresa" disse Luigi, "ieri sera tu mi dicesti che avresti dato
metà della tua vita per avere un costume eguale a quello della
figlia del conte."
"Certamente" disse Teresa con meraviglia, "ma ero ben pazza quando
esternavo un simile desiderio."
"Ed io ti ho risposto: Sta bene, tu l'avrai."