a sei cavalli.

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 33.

                                 I BRIGANTI.

 

 

      Il giorno dopo Franz si svegliò per primo, e appena desto suonò.

      Il tintinnio del campanello risuonava ancora quando Pastrini entrò

      di persona.

      "Ebbene!" disse l'albergatore trionfante,  e senza  aspettare  che

      Franz  lo  interrogasse.  "Facevo  bene ieri sera a non promettere

      niente;  avete aspettato troppo,  e adesso  non  c'è  neppure  una

      carrozza da nolo in Roma per tre giorni, s'intende."

      "Sì" rispose Franz, "vale a dire per quelli in cui è assolutamente

      necessaria!"

      "Che c'è?" domandò Alberto entrando. "Non si trovano carrozze?"

      "Precisamente mio caro amico" rispose Franz.  "Avete indovinato al

      primo colpo."

      "Ah, è una gran bella città questa vostra città eterna!"

      "Cioè,  Eccellenza" riprese Pastrini,  che desiderava mantenere la

      capitale  del  mondo  cristiano  in  un  certo decoro in faccia ai

      viaggiatori,  "non vi sono più  carrozze  da  domenica  mattina  a

      martedì sera;  ma da oggi a domenica ne troverete cinquanta, se lo

      volete."

      "Non è poco" disse Alberto.  "Oggi è giovedì;  chi  sa  di  qui  a

      domenica quello che può accadere."

      "Accadrà  l'arrivo  di  dieci  o  dodici  mila forestieri" rispose

      Franz, ai quali renderanno la difficoltà sempre più grande."

      "Amico mio" disse Morcerf, "godiamo del presente, non ci prendiamo

      cura dell'avvenire."

      "Almeno" domandò Franz, "potremo avere una finestra?"

      "Su che strada?"

      "Sul Corso, per Bacco!"

      "Ah sì,  una finestra"  esclamò  Pastrini,  "impossibilissimo!  Ne

      restava  una  al  quinto  piano  del  palazzo  Doria,  ed  è stata

      affittata ad un principe russo per venti zecchini al giorno."

      I due giovani si guardarono con aria stupefatta.

      "Ebbene,  mio caro" disse Franz ad Alberto.  "Sapete ciò che torna

      meglio di fare? Andare a finire il carnevale a Venezia; almeno là,

      se non troviamo carrozze, troveremo gondole!"

      "Ah, in fede mia" gridò Alberto, "ho deciso di vedere il carnevale

      di Roma, e lo vedrò, fosse anche sopra una panchetta!"

      "Bravo!" gridò Franz.  "E' un'idea magnifica,  particolarmente per

      spegnere i moccoletti;  ci maschereremo da Pulcinella e faremo  un

      effetto meraviglioso."

      "Le   Loro   Eccellenze  desiderano  sempre  la  carrozza  fino  a

      domenica?"

      "Per Bacco" disse Alberto,  "credete  che  noi  siamo  persone  da

      correre le strade di Roma a piedi come i portieri e i cursori?"

      "Vado   ad  eseguire  gli  ordini  delle  Loro  Eccellenze"  disse

      Pastrini,  "le prevengo soltanto che la carrozza costerà sei scudi

      al giorno."

      "Ed  io,  caro Pastrini" disse Franz,  "che non sono il milionario

      nostro vicino,  vi prevengo per parte mia che  essendo  la  quarta

      volta  che  vengo  a Roma,  conosco il prezzo delle carrozze per i

      giorni ordinari, le domeniche e le feste; vi daremo dodici piastre

      per oggi,  domani e dopo domani,  e voi ci troverete anche un  non

      piccolo guadagno."

      "Ma Eccellenza..." disse Pastrini, tentando di ribellarsi.

      "Andate, andate mio caro" disse Franz, "o vado io stesso a fare il

      prezzo dal padrone delle scuderie,  che conosco bene; è un vecchio

      amico,  mi ha già rubato non poco denaro,  e,  nella  speranza  di

      rubarmene  dell'altro,  accetterà  anche  per  un prezzo minore di

      quello che vi offro; perdereste la differenza e per colpa vostra."

      "Non vi prendete questo incomodo,  Eccellenza" disse Pastrini  col

      sorriso dello speculatore di locanda che si confessa vinto,  "farò

      il meglio che potrò, e sarete contento."

      "A meraviglia; ecco ciò che si chiama parlare."

      "Quando volete la carrozza?"

      "Fra un'ora."

      "Fra un'ora sarà alla porta."

      Un'ora dopo effettivamente la carrozza aspettava  i  due  giovani;

      era  un  modesto  calesse,  che  per  la solennità della festa era

      salito al grado di carrozza di piazza.  Ma quantunque di  mediocre

      apparenza,  i due giovani sarebbero stati ben contenti di avere un

      tale veicolo per gli ultimi tre giorni del carnevale.

      "Eccellenza" gridò il servitore di piazza,  vedendo Franz  mettere

      il naso alla finestra, "vuole che faccia avvicinare la carrozza al

      palazzo?"

      Per quanto Franz fosse abituato all'enfasi italiana,  il suo primo

      movimento fu di  guardarsi  intorno,  ma  a  lui  stesso  venivano

      rivolte quelle parole...

      Franz era l'Eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era

      l'albergo Londra.

      Tutto il genio della nazione era in questa sola frase.

      Franz ed Alberto discesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le

      Loro  Eccellenze  allungarono  le  gambe  sui posti davanti,  e il

      cicerone saltò sul sedile di dietro.

      "Dove vogliono andare le Loro Eccellenze?"

      "Prima a San Pietro e poi  al  Colosseo"  disse  Alberto  da  vero

      parigino.

      Ma non sapeva una cosa, cioè che ci vuole un giorno per vedere San

      Pietro, e un mese per studiarlo.

      La giornata fu tutta impiegata nel veder San Pietro.

      D'improvviso  i  due  amici  si accorsero che il giorno declinava.

      Franz cavò l'orologio:  erano  le  quattro  e  mezzo.  Ritornarono

      all'albergo.  Giunti  alla  porta,  Franz  dette ordine di tenersi

      pronto per le otto;  voleva far vedere ad Alberto il  Colosseo  al

      chiaro  di  luna,  come gli aveva fatto vedere San Pietro in pieno

      giorno.

      Allorché si fa vedere ad un amico una città,  che si è già veduta,

      ci  si  mette  quella  civetteria  che si usa quando si indica una

      donna della quale si è stati l'amante.

      In conseguenza Franz indicò al cocchiere il suo itinerario: dovete

      uscire dalla porta del Popolo,  andare intorno alle  mura  esterne

      della città,  e rientrare dalla porta San Giovanni. In tal modo il

      Colosseo compare d'improvviso,  e senza  che  il  Campidoglio,  il

      Foro, l'Arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina,

      e  la  Via Sacra abbiano anticipato gli effetti di quelle maestose

      rovine.

      Si fermarono per il pranzo.

      Pastrini aveva promesso ai suoi  ospiti  un  eccellente  desinare,

      gliene dette uno passabile, non c'era nulla da dire.

      Alla fine del pranzo entrò egli stesso. Franz sulle prime credette

      che fosse venuto per ricevere i loro complimenti,  e si apprestava

      a farglieli allorché, alle prime parole, egli lo interruppe.

      "Eccellenza" disse, "sono lusingato della vostra approvazione,  ma

      non è questo il motivo che mi ha fatto salire da voi."

      "E'  forse  per  venirci  a  dire  che avete trovato la carrozza?"

      domandò Alberto, accendendo un sigaro.

      "Per niente,  ed anzi,  Vostra Eccellenza farà bene a non pensarci

      più. In Roma le cose o si possono o non si possono. Quando vi si è

      detto che non si possono, tutto è finito."

      "A Parigi,  è molto più comodo;  quando una cosa non si può avere,

      la si paga il doppio, e si ha sul momento ciò che si domanda."

      "Sento sempre dire la stessa  cosa  da  tutti  i  francesi"  disse

      Pastrini,  un  poco  contrariato,  "e  non so comprendere come con

      tante meraviglie che ci sono a Parigi, i parigini viaggino."

      "Ma è così" disse Alberto,  mandando flemmaticamente una fumata al

      soffitto  e  rovesciando il capo indietro sulla poltrona,  "non vi

      sono che i pazzi, e gli oziosi come noi che viaggino,  la gente di

      buon  senso  non  lascia la casa della rue Helder,  il Bastione di

      Gand, e il Caffè di Parigi."

      Non è necessario dire che abitava nella strada suddetta, che tutti

      i giorni faceva  la  sua  passeggiata  elegantemente  vestito  sul

      Bastione di Gand, e che pranzava tutti i giorni al Caffè di Parigi

      avendo confidenza coi camerieri.

      Pastrini  restò  un momento silenzioso,  era evidente che meditava

      sulla risposta che gli aveva  dato  Alberto,  risposta  che  senza

      dubbio non gli pareva molto chiara.

      "Ma infine" disse Franz a sua volta,  interrompendo le riflessioni

      geografiche del  suo  albergatore,  "eravate  venuto  con  qualche

      scopo: volete esporci l'oggetto della vostra visita?"

      "Oh è vero, eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto."

      "Sicuramente."

      "Avete l'intenzione di visitare il Coliseo!"

      "Cioè il Colosseo."

      "E' la stessa cosa."

      "Sia."

      "Avete detto al vostro cocchiere di uscire dalla porta del Popolo,

      e  fare  il  giro  delle  mura  per  rientrare  dalla porta di San

      Giovanni!"

      "Queste sono le mie precise parole."

      "Ebbene,   questo  itinerario  è  impossibile,   o  almeno   molto

      pericoloso."

      "Pericoloso!? Perché?"

      "A causa del famoso Luigi Vampa."

      "Per  prima  cosa,  mio  caro Pastrini,  chi è questo famoso Luigi

      Vampa?" domandò Alberto.  "Può essere famosissimo a  Roma,  ma  vi

      assicuro che è perfettamente sconosciuto a Parigi."

      "Come, non lo conoscete?"

      "Non ho quest'onore."

      "Ebbene,  è un bandito,  vicino al quale i Decesaris e i Gasperoni

      sono specie di chierichetti."

      "Attenti!"  Alberto  gridò.  "Franz,  ecco  dunque  finalmente  un

      brigante!  Vi  prevengo,  mio  caro Pastrini,  che non crederò una

      parola di tutto ciò che state per dirci; ma parlate quanto volete,

      vi ascolto."

      "C'era una volta..."

      "Avanti dunque."

      Pastrini si  volse  dalla  parte  di  Franz  sembrandogli  il  più

      ragionevole dei due giovani.

      Bisogna  rendere  giustizia  al  brav'uomo: aveva alloggiati molti

      francesi,  ma non aveva mai ben capito ciò che  essi  chiamano  il

      loro spirito.

      "Eccellenza" disse con gravità, volgendosi a Franz, "se mi credete

      un  cantastorie  è inutile che vi dica ciò che volevo;  posso però

      assicurarvi che lo facevo per  la  premura  che  ho  per  le  Loro

      Eccellenze."

      "Alberto  non  vi  ha  detto  che  siete un cantastorie,  mio caro

      Pastrini,  vi ha detto soltanto che  non  vi  crederà,  ma  io  vi

      crederò, state tranquillo: parlate dunque."

      "Però  convenite,  Eccellenza,  che  se  si  mette  in  dubbio  la

      sincerità delle mie parole..."

      "Mio caro,  voi siete più suscettibile di Cassandra,  che pure era

      una  indovina,  e  alla  quale  nessuno credeva;  mentre voi siete

      sicuro di essere creduto almeno dalla metà  del  vostro  uditorio.

      Sedetevi, diteci chi è questo signor Vampa?"

      "Ve lo dissi, Eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo

      mai avuto l'eguale dall'epoca di Mastrilli."

      "Ebbene,  che  rapporto ha questo bandito con l'ordine che ho dato

      al cocchiere di partire da porta del Popolo  e  di  rientrare  per

      porta San Giovanni."

      "C'è" rispose Pastrini,  "che potreste uscir dall'una ma dubiterei

      che potreste entrare per l'altra."

      "E perché?" domandò Franz.

      "Perché quando è notte, non c'è sicurezza in quelle contrade."

      "Parola d'onore?" gridò Alberto.

      Pastrini,  sempre punto nel fondo dell'anima per i dubbi sulla sua

      veracità, rispose:

      "Signor  conte,  ciò  che  dico  non  è  ver voi,  e per il vostro

      compagno di viaggio che conosce Roma e sa benissimo che su  questi

      argomenti non si scherza."

      "Mio  caro" disse Alberto volgendosi a Franz,  "ecco un'ammirabile

      avventura: empiamo il  nostro  calesse  di  pistole,  tromboni,  e

      fucili a due canne. Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece

      arrestiamo  lui:  lo  portiamo  a Roma,  ne facciamo un omaggio al

      Senato romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci

      la sua riconoscenza,  reclamiamo  puramente  e  semplicemente  una

      carrozza e due cavalli delle scuderie del senatore: e negli ultimi

      giorni,  godiamo del carnevale in carrozza, senza calcolare che il

      popolo romano riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio,  e

      proclamarci,  come  Curzio  e  Orazio  Coclite,  i salvatori della

      patria."

      "In primo luogo" domandò Franz ad Alberto,  "dove prendere  queste

      pistole,  questi tromboni,  e questi fucili a due canne, coi quali

      volete riempire la vostra carrozza?"

      "Il fatto  sta,  che  certamente  non  potrei  prenderli  nel  mio

      arsenale" diss'egli,  "perché a Terracina mi è stato tolto perfino

      il mio pugnale. E voi?"

      "Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente."

      "Così,  mio caro Pastrini" disse  Alberto  accendendo  un  secondo

      sigaro  al  residuo  del  primo,  "sapete che questa è una fortuna

      stramaledetta per quei banditi?"

      "Sua Eccellenza sa che non c'è l'uso di difendersi quando si viene

      aggrediti dai banditi" rispose Pastrini, che non voleva mettersi a

      fare osservazioni sulle leggi d'oltralpe.

      "Come?" gridò Alberto,  il cui coraggio si rivoltava  all'idea  di

      lasciarsi svaligiare senza dir niente, "come non c'è l'uso?"

      "No,  perché  qualunque  difesa  sarebbe inutile.  Che volete fare

      contro una dozzina di assassini che escono  da  un  fosso,  da  un

      antro o da un acquedotto,  e vi mettono nello stesso tempo le armi

      alla gola?"

      "Ah, per Bacco! voglio farmi ammazzare!" gridò Alberto.

      L'albergatore si volse verso Franz con una espressione che  voleva

      dire: "Davvero, Eccellenza, il vostro camerata è pazzo".

      "Mio caro Alberto" soggiunse Franz, "la vostra risposta è sublime,

      e  merita  il  "dovea morir!" del vecchio Cornelio;  soltanto che,

      quando Orazio rispondeva questo,  si trattava  della  salvezza  di

      Roma,  e la cosa era abbastanza importante: ma in quanto a noi non

      si tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo arrischiare

      la propria vita per soddisfare un tal capriccio."

      "Ah, per Bacco!" gridò Pastrini, "alla buon'ora,  questo si chiama

      parlare!"

      Alberto  si  versò  un  bicchiere  di  lacrimacristi,  che bevve a

      sorsate frammettendovi un brontolio di parole confuse che  nessuno

      poté intendere.

      "Ebbene,  Pastrini"  rispose Franz,  "ora che il mio compagno si è

      calmato,   e  voi  avete  potuto  apprezzare  le  sue   intenzioni

      pacifiche, sentiamo: chi è questo signor Luigi Vampa? E' giovane o

      vecchio?  E'  contadino o patrizio?  descrivetecelo affinché se lo

      avessimo per caso  da  incontrare  nella  società,  come  Giovanni

      Sbagar, o Lara, lo possiamo riconoscere."

      "Non  vi  potevate  rivolgere  meglio  che  a me per averne esatti

      particolari,  poiché ho conosciuto Luigi Vampa da  ragazzo,  e  un

      giorno  anzi  che  caddi  nelle sue mani,  andando da Ferentino ad

      Alatri,  si sovvenne,  fortunatamente per me,  della nostra antica

      conoscenza,  e non solo mi lasciò andare liberamente senza esigere

      riscatto,  ma  volle  farmi  il  regalo  di  un  bell'orologio,  e

      raccontarmi tutta la sua storia."

      "Vediamo l'orologio" disse Alberto.

      Pastrini  cavò  dal  taschino  un magnifico orologio a cilindro di

      Beguet col nome dell'autore,  il bollo di Parigi e una  corona  da

      conte.

      "Eccolo qui" diss'egli.

      "Poffare!" fece Alberto,  "ve ne faccio i miei complimenti.  Io ne

      ho uno press'a  poco  come  questo,  che  costa  tremila  franchi.

      Eccolo..." e cavò l'orologio dal taschino del giubbetto.

      "Sentiamo ora la storia" disse Franz, tirando una sedia, e facendo

      segno a Pastrini di sedersi.

      "Le Loro Eccellenze mi permettono..." disse l'albergatore.

      "Per  Bacco" disse Alberto,  "non siete un predicatore,  mio caro,

      per parlare sempre in piedi."

      L'albergatore si accomodò,  dopo aver fatto un saluto rispettoso a

      ciascuno  dei suoi uditori come per far intendere che era pronto a

      dar loro quei particolari ch'essi avessero domandato.

      "A noi!" disse Franz interrompendo Pastrini al momento  che  stava

      per  aprire bocca.  "Dicevate d'aver conosciuto Luigi Vampa quando

      era ragazzo; è dunque molto giovane ancora?"

      "Lo credo bene!  Ha appena ventidue anni!  E' un galeotto  che  ne

      farà di strada, state sicuri."

      "Che  ne  dite Alberto?  E' una bella cosa a ventidue anni essersi

      già fatta una reputazione" disse Franz.

      "Sì certamente, alla sua età,  Alessandro,  Cesare e Napoleone non

      erano  tanto  avanti,  e sì che hanno fatto poi qualche rumore nel

      mondo."

      "E così" riprese Franz, volgendosi all'albergatore, "l'eroe di cui

      ora sentiremo la storia, non ha che ventidue anni?"

      "Appena, come ebbi l'onore di dirvi."

      "E' grande o piccolo?"

      "Di  mezza  statura,  presso  a  poco  come  voi,  signore"  disse

      l'albergatore, designando Alberto.

      "Grazie del paragone" disse quegli, inchinandosi.

      "Avanti,  Pastrini"  riprese Franz sorridendo della suscettibilità

      del suo amico. "E a qual classe della società appartiene?"

      "Era un semplice pastore,  addetto alla  fattoria  del  conte  San

      Felice  situata  fra  Palestrina  e  il  lago  di  Gabri: nacque a

      Pampinara e fino dall'età di cinque anni  entrò  al  servizio  del

      conte. Suo padre, pastore in Agnani, possedeva un piccolo gregge e

      viveva  della  lana  dei  montoni  e del prodotto delle pecore che

      veniva a vendere a Roma.  Fin da fanciullo il piccolo Vampa  aveva

      un'indole strana.  Un giorno all'età di sette anni, andò a trovare

      il curato di Palestrina,  e lo pregò d'insegnargli a leggere.  Era

      una cosa assai difficile, perché il pastorello non poteva lasciare

      le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa

      in un piccolo borgo, troppo povero e troppo poco considerevole per

      poter mantenervi un prete,  e che, non avendo neppure un nome, era

      conosciuto sotto quello di Borgo.  Egli offrì a Luigi di  trovarsi

      sulla strada che percorreva nell'ora del ritorno, e di dargli così

      la lezione, prevenendolo che questa sarebbe stata corta, e che per

      conseguenza   avrebbe   dovuto   applicarsi   molto  per  renderla

      profittevole. Il fanciullo accettò con gioia.

      Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla  strada

      da  Palestrina a Borgo;  e la mattina alle nove il curato passava:

      il prete ed il fanciullo si sedevano sull'orlo di un  fosso  e  il

      giovane  pastorello prendeva lezione sul breviario del curato.  Il

      prete fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre  esemplari

      di alfabeto, uno grande, uno mezzano e l'altro piccolo, e gli fece

      vedere  che imitando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna,

      con l'aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere.  La

      sera  stessa,  quando  ebbe  rinchiuso  il  gregge nell'ovile,  il

      piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio  di  Palestrina,  prese  un

      grosso  chiodo  e lo arroventò,  lo martellò,  lo arrotondò,  e ne

      formò una specie di stiletto antico: l'indomani unì  una  quantità

      di  pezzi  di  lavagna,  e  si mise all'opera.  Dopo tre mesi egli

      sapeva scrivere.

      Il  curato  meravigliato  di  questa  profonda   intelligenza,   e

      ammirando questa attitudine,  gli fece regalo di parecchi quaderni

      di carta, di alcune penne,  e di un temperino.  Allora ebbe a fare

      un  altro  studio;  ma  uno  studio  che era ben poca cosa dopo il

      primo.  Otto  giorni  dopo  maneggiava  la  penna  come  prima  lo

      stiletto.  Il  curato  raccontò  quest'aneddoto  al  conte  di San

      Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere

      innanzi a sé,  ordinò al suo  intendente  di  farlo  mangiare  coi

      domestici,  assegnandogli  due  scudi  al mese.  Con questo denaro

      Luigi comprò dei libri e delle matite.  Difatti applicava a  tutti

      gli  oggetti  il  suo  spirito  di  imitazione,   e,  come  Giotto

      fanciullo, copiava sulle lavagne le pecore,  gli alberi,  le case.

      Poi  con  la  punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di

      legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Pinelli,  l'artista

      popolare, aveva cominciato così.

      Una  ragazzina di sei sette anni,  cioè poco più giovane di Vampa,

      era pur essa alla custodia delle  pecore  in  una  vicina  tenuta,

      presso Palestrina: questa bambina era orfana, nata a Valmontone, e

      si chiamava Teresa.  I due fanciulli s'incontravano, sedevano l'un

      presso all'altro,  lasciavano i loro greggi mischiarsi  e  pascere

      insieme,   discorrevano,   ridevano,   scherzavano;  poi  la  sera

      separavano il gregge del conte San Felice  da  quello  del  barone

      Cervetri e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi l'indomani.

      L'indomani infatti mantenevano la parola, e intanto crescevano sia

      l'uno  che  l'altra.  I  loro  istinti  naturali  si svilupparono.

      Accanto al gusto per le arti,  che Luigi aveva  spinto  tant'oltre

      quanto  è  permesso  nella  solitudine,  egli era a tratti triste,

      ardente,  collerico per capriccio,  burbero  sempre.  Nessuno  dei

      giovani di Pampinara,  di Palestrina e di Valmontone aveva potuto,

      non solo prendere alcuna influenza su di lui,  ma neppure divenire

      suo  compagno.  Il  suo temperamento e l'essere sempre disposto ad

      esigere, e non mai a lasciarsi piegare ad alcuna concessione,  gli

      allontanava  ogni  approccio amichevole,  ed ogni dimostrazione di

      simpatia. Teresa sola comandava con una parola, con un gesto,  con

      uno sguardo questa indole,  che cedeva sotto la mano di una donna,

      ma che sotto quella di un uomo si  sarebbe  irritata  all'eccesso.

      Teresa  al contrario era vivace,  vispa e gaia,  ma eccessivamente

      civettuola.  I due scudi che Luigi riceveva dall'intendente di San

      Felice,  il  ricavato  di tutti i lavori d'intaglio che vendeva ai

      mercanti di giocattoli in Roma,  si tramutavano  in  orecchini  di

      perle,  in  collane  di  cristallo,  in  spilli  di  oro;  per  la

      prodigalità del giovane amico,  Teresa era la più bella e  la  più

      elegante di tutte le contadine delle vicinanze di Roma.

      I  due  giovani  continuavano  a  crescere,  passando  la giornata

      insieme, e si abbandonavano senza opposizione a tutti i moti della

      loro natura; così nelle conversazioni, nei loro desideri, nei loro

      castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello, o

      governatore di una provincia;  Teresa  si  vedeva  ricca,  vestita

      delle  più  belle stoffe,  seguita da servitori in livrea.  Quando

      avevano passata un'intera giornata ad abbellire il  loro  avvenire

      di  questi  folli e brillanti sogni,  si separavano per ricondurre

      ciascuno il suo gregge alla  stalla,  ricadendo  dall'altezza  dei

      sogni  alla  umiliante  realtà  della loro condizione.  Il giovane

      pastore disse un giorno all'intendente del conte, che aveva veduto

      un lupo uscir dalle montagne della Sabina  e  ronzare  attorno  al

      gregge.  L'intendente  gli  dette  un  fucile;  era ciò che ambiva

      Vampa.  Questo fucile aveva un'eccellente  canna  di  Brescia  che

      sparava  come  una  carabina  inglese;  l'incassatura soltanto era

      stata in qualche modo guastata dal conte,  mentre dava  la  caccia

      alle volpi, e per questo il fucile messo fra gli scarti. Non c'era

      difficoltà  per  un  intagliatore  come  Vampa.  Esaminò  la forma

      primitiva,  calcolò ciò che  bisognava  cambiare  per  metterlo  a

      posto,  e  fece  un'altra  incassatura  zeppa  di  ornamenti  così

      meravigliosi che certamente avrebbe potuto guadagnarci una ventina

      di scudi,  dal solo incasso,  se fosse venuto a venderlo in città.

      Ma non lo vendette: un fucile era stato da gran tempo il sogno del

      giovane.

      In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuore forte, ogni

      giovane vigoroso,  è quello di un'arma,  che assicuri nello stesso

      tempo l'assalto e la difesa,  e facendo  terribile  chi  la  porta

      spesso  lo fa temuto.  Da quel giorno Vampa impiegò nell'esercizio

      del fucile tutt'i momenti che gli rimanevano liberi: comprò  della

      polvere  e delle pallottole,  e tutto gli serviva di bersaglio: il

      tronco di un ulivo,  triste,  pallido e cenerino,  che vegeta  sul

      declivio  delle  montagne della Sabina;  la volpe,  che nella sera

      usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l'aquila, che

      s'innalza per l'aria. Ben presto diventò così valente, che Teresa,

      superato quel primo moto di paura causata  dalla  detonazione,  si

      divertiva  nel  vedere  il  giovane  compagno  colpire  dove aveva

      indicato,  così precisamente come avesse accompagnato il tiro  con

      la mano.

      Una sera,  un lupo uscì effettivamente da un buco, vicino al quale

      i due giovani avevano l'abitudine di  stare;  il  lupo  non  aveva

      fatti dieci passi sulla pianura che già era morto. Vampa, fiero di

      questo  bel  colpo,  se  lo  caricò  sulle  spalle e lo portò alla

      fattoria.  Tutti questi  particolari  davano  a  Luigi  una  certa

      reputazione  nei  dintorni  della  fattoria:  l'uomo  superiore in

      qualunque luogo si trovi si forma una clientela d'ammiratori.  Nei

      luoghi  circonvicini si parlava di questo giovane pastore come del

      più destro,  del più forte,  e del più bravo contadino che fosse a

      dieci  leghe  di  distanza,  e quantunque Teresa,  in una zona più

      estesa ancora,  passasse per la  più  bella  delle  ragazze  della

      Sabina,  pure  nessuno  si arrischiava a dirle una parola d'amore,

      perché la si sapeva amata da Vampa.  E frattanto i due giovani non

      si  erano mai detti che si amavano.  Avevano vissuto l'uno accanto

      all'altro,  come due alberi che uniscono le radici nel  suolo  che

      intrecciano i rami nell'aria,  il profumo nel cielo;  soltanto era

      in loro lo stesso desiderio di vedersi: questo  desiderio  divenne

      bisogno, ed era per loro assai più facile comprendere la morte che

      una  separazione,  anche  di  un  sol giorno.  Teresa aveva allora

      sedici anni e Vampa diciassette.

      In quel tempo si cominciava  a  parlare  molto  di  una  banda  di

      briganti che si rintanava sui monti Lepini.  Il brigantaggio,  per

      quanto  efficaci  furono  le  misure  prese,   non  è  mai   stato

      completamente sconfitto nelle nostre campagne. Qualche volta manca

      un capo,  ma, quando se ne presenta uno, è difficile che manchi di

      una banda.  Il  celebre  Cucumetto,  perseguitato  negli  Abruzzi,

      cacciato  dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra,  aveva

      traversato il Garigliano come Manfredi,  ed era venuto fra Sonnino

      e Giuperno, a rifugiarsi sulle rive dell'Amasina, egli si occupava

      a  riordinare  una  banda  che  avrebbe  camminato  sulle  onde di

      Gasparone e di Decesaris,  che sperava  ben  presto  di  superare.

      Molti   giovani   di  Palestrina,   di  Frascati  e  di  Pampinara

      scomparvero da casa.  Sulle prime,  si stette  in  pena  sul  loro

      conto,  ma  ben  presto  si seppe ch'erano andati a raggiungere la

      banda di  Cucumetto.  In  capo  a  poco  tempo  Cucumetto  diventò

      l'oggetto   dell'attenzione  generale.   Venivano  ovunque  citate

      imprese di questo capo bandito di estrema audacia, e di rivoltante

      brutalità.

      Un  giorno  rapì  una  ragazza,  la  figlia  d'un  agrimensore  di

      Frosinone.  Le  leggi  dei  banditi  sono  positive:  una  giovane

      appartiene da prima a colui che la rapì; poi gli altri la tirano a

      sorte fra loro,  e l'infelice serve ai piaceri di tutta  la  banda

      fino a che i banditi l'abbandonino o muoia.  Quando i parenti sono

      ricchi abbastanza per riscattarla,  si  manda  un  messaggero  che

      tratta  la taglia;  la testa della prigioniera risponde della fede

      dell'emissario.  Se  la  taglia  è  ricusata,   la  prigioniera  è

      irrevocabilmente condannata.

      La  giovane  aveva  nella  banda di Cucumetto il suo amante che si

      chiamava Carlini. Riconoscendo il giovane, gli tese le braccia,  e

      si  credette  salva.  Ma  il  povero  Carlini riconoscendola sentì

      spezzarglisi il cuore, perché non si faceva illusioni sulla triste

      sorte che l'aspettava.

      Tuttavia essendo il favorito di Cucumetto,  e partecipando da  tre

      anni  a  tutti  i  suoi  pericoli,  e  avendogli  salvata la vita,

      uccidendo con un colpo di pistola un gendarme che aveva già levata

      la sciabola,  sperò che costui avrebbe avuto un po' di  pietà.  Lo

      chiamò  a parte,  mentre la giovane appoggiata contro il tronco di

      un pino in  una  radura  della  foresta  tutta  nuda  e  ricoperta

      soltanto  della  pittoresca  capigliatura  delle contadine romane,

      nascondeva il viso ai  lussuriosi  sguardi  dei  banditi.  Carlini

      raccontò  tutto  al suo capo,  i suoi amori con la prigioniera,  i

      loro giuramenti di fedeltà, e come ogni notte, quando la banda era

      in quei dintorni,  i due amanti si davano  convegno  in  un  luogo

      appartato.

      Quella   sera  appunto  Cucumetto  aveva  mandato  Carlini  in  un

      villaggio,  e così non  aveva  potuto  trovarsi  al  convegno;  ma

      Cucumetto  vi era giunto per caso ed aveva così rapita la ragazza.

      Carlini supplicò il suo capo  di  fare  un'eccezione  e  rispettar

      Rita,  dicendogli  che il padre era ricco,  e avrebbe sborsato una

      buona somma per riscattarla.

      Cucumetto  parve  arrendersi  alle  preghiere  dell'amico,   e  lo

      incaricò  di  trovare  un  contadino da poter mandare dal padre di

      Rita a Frosinone.  Carlini allora si  avvicinò  alla  ragazza,  le

      disse  all'orecchio  che  era salva,  e la invitò a scrivere a suo

      padre una lettera su quanto le era accaduto annunciandogli che  la

      somma del riscatto era fissata a trecento piastre. Al padre non si

      dava  che  dodici ore,  vale a dire fino alle nove del mattino del

      giorno seguente.

      Scritta la lettera,  Carlini corse alla pianura  per  cercarvi  un

      messaggero. Trovò un giovane che faceva pascolare il suo gregge. I

      messaggeri naturali dei briganti sono i pastori, che vivono fra la

      città  e la campagna,  tra la vita selvaggia e la vita incivilita.

      Il giovane pastore partì subito,  promettendo di essere  prima  di

      un'ora a Frosinone.

      Carlini tornò subito, gaio e contento, a raggiungere la sua amante

      ed annunciarle la buona novella.  La banda era al medesimo posto e

      cenava allegramente con le provvigioni che i  briganti  prendevano

      ai  contadini  come  tributo: fra quegli allegri convitati Carlini

      cercò inutilmente  Cucumetto  e  Rita.  Domandò  dove  fossero;  i

      banditi risposero con uno scroscio di risa.

      Un  freddo  sudore gli bagnò la fronte,  e parve che l'angoscia lo

      prendesse per i capelli.

      Rinnovò la sua domanda.  Uno dei convitati riempì un bicchiere  di

      vino di Orvieto e glielo tese dicendo:

      "Alla salute del bravo Cucumetto e della bella Rita!"

      In  quel  momento  Carlini  credette  di  udire un grido di donna:

      indovinò tutto.  Prese il bicchiere e lo spezzò  sulla  faccia  di

      colui che glielo aveva offerto, poi si slanciò nella direzione del

      grido.

      A  cento  passi,  alla svolta di un cespuglio,  trovò Rita svenuta

      nelle braccia di Cucumetto.  Scorgendo Carlini,  Cucumetto si alzò

      tenendo  in  ognuna  delle  mani  una  pistola.  I  due banditi si

      guardarono un istante: l'uno,  il  sorriso  della  lussuria  sulle

      labbra;  l'altro,  il pallore della morte sulla fronte. Si sarebbe

      creduto che tra questi due uomini  stesse  per  succedere  qualche

      cosa  di  terribile.  Ma  a  poco  a  poco i lineamenti di Carlini

      cominciarono a calmarsi: la mano,  che aveva portato ad una  delle

      pistole che pendevano dalla cintura, si ritrasse di lato. Rita era

      coricata fra loro due.

      La luna rischiarava la scena.

      "Ebbene?"  disse  Cucumetto,  "hai fatto la commissione di cui eri

      incaricato?"

      "Sì,  capitano" rispose Carlini,  "domani,  prima delle  nove,  il

      padre di Rita sarà qui col denaro."

      "A meraviglia!  Intanto, mentre l'aspetto, noi vogliamo passare un

      allegra notte.  Questa giovane è magnifica,  e tu hai davvero buon

      gusto,  mastro Carlini. Così, non sono egoista, torniamo ai nostri

      camerati per tirare a sorte colui cui ora deve appartenere."

      "Siete deciso ad abbandonarla alla legge comune?" chiese Carlini.

      "E perché si dovrebbe fare eccezione in suo favore?"

      "Avevo creduto che alla mia preghiera..."

      "E che, sei tu più degli altri?"

      "E' giusto.'

      "Ma sta' tranquillo" rispose Cucumetto  ridendo,  "prima  o  dopo,

      verrà la tua volta..."

      I denti di Carlini si serrarono al punto che parevano spezzarsi.

      "Andiamo"  disse  Cucumetto,  facendo  un passo verso i convitati.

      "Vieni tu?"

      "Vi seguo..."

      Cucumetto si allontanò,  senza perdere di  vista  Carlini,  perché

      temeva  che  volesse  colpirlo  di dietro,  ma niente nel brigante

      tradiva un'intenzione ostile.  Era in piedi,  le braccia conserte,

      presso Rita sempre svenuta.

      Cucumetto  pensò per un istante che il giovane la prendesse fra le

      braccia o fuggisse con lei.  Ma ciò poco gli  importava:  da  Rita

      aveva  avuto quel che voleva;  quanto al danaro,  trecento piastre

      divise fra la banda,  faceva una così povera somma  che  ben  poco

      gliene importava.

      Continuò dunque il suo cammino verso i briganti;  ma, con suo gran

      stupore, Carlini arrivò quasi prima di lui.

      L'estrazione a sorte!  l'estrazione a sorte!"  gridavano  tutti  i

      banditi, nello scorgere il loro capo.

      E gli occhi di tutti quegli uomini sfavillarono di ebbrezza,  e di

      lascivia,  mentre la fiamma del fuoco acceso gettava su tutti  una

      luce rossastra che li faceva somigliare a demoni.

      La  loro  domanda  era  giusta: e però il capo fece un cenno colla

      testa,  condiscendeva.  Tutti i nomi furono  subito  messi  in  un

      cappello, compreso quello di Carlini, e il più giovane della banda

      tirò un bullettino dall'urna improvvisata. Quel bullettino portava

      il  nome  di  Diavolaccio;  era quello stesso che aveva proposto a

      Carlini di bere alla salute  del  capo,  e  a  cui  Carlini  aveva

      risposto col spezzargli il bicchiere sulla faccia.

      Diavolaccio,  vedendosi  favorito  dalla  fortuna,  diede  in  uno

      scoppio e risa.

      "Capitano" disse, "poco fa, Carlini non ha voluto bere alla vostra

      salute;  proponetegli ora di  bere  alla  mia...  Avrà  forse  più

      riguardo per voi che per me."

      Ognuno aspettava una reazione violenta di Carlini;  ma, con grande

      stupore di tutti,  prese con la mano un bicchiere,  con l'altra un

      fiasco riempiendo il bicchiere:

      "Alla  tua  salute,  Diavolaccio!"  disse  con  voce perfettamente

      calma,  e tracannò il contenuto del bicchiere senza che per  nulla

      tremasse la sua mano.

      Poi, sedendosi accanto al fuoco:

      "La mia porzione di cena!" disse.  "La corsa fatta mi ha ridestato

      l'appetito."

      "Viva Carlini!" gridarono i briganti.

      "Alla buon'ora,  ecco ciò che si dice  prender  la  cosa  da  buon

      compagno."

      E tutti formarono circolo intorno al fuoco,  mentre Diavolaccio si

      allontanava.

      Carlini mangiava e beveva,  come nulla fosse accaduto.  I briganti

      lo   guardavano   stupefatti;   essi   non   comprendevano  quella

      impassibilità, quando intesero dietro di loro un passo pesante. Si

      voltarono,  e scorsero Diavolaccio,  che tra le braccia  aveva  la

      ragazza.  Lei aveva la testa rovesciata, e i lunghi capelli fino a

      terra.

      Mentre entravano nello spazio rischiarato dal fuoco,  si accorsero

      del  pallore  della donna e del bandito.  Quella apparizione aveva

      qualcosa di così strano  e  di  solenne  che  tutti  si  alzarono,

      eccetto  Carlini,  che restò seduto,  e continuò a bere e mangiare

      come nulla accadesse intorno lui.

      Diavolaccio continuava ad  avanzarsi  in  mezzo  al  più  profondo

      silenzio e depose Rita ai piedi del capitano.

      Allora  tutti poterono vedere la causa del pallore della donna del

      bandito. Rita aveva un coltello conficcato sino al manico sotto la

      poppa sinistra.

      Tutti gli sguardi si portarono su Carlini;  la guaina del coltello

      pendeva vuota alla sua cintura.

      "Ah,  ah" disse il capo, "ora comprendo perché Carlini era rimasto

      indietro."

      Ogni natura selvaggia è capace di  apprezzare  una  forte  azione;

      quantunque  forse  nessuno  di  quei banditi avrebbe fatto ciò che

      aveva fatto Carlini, tutti però compresero la sua azione.

      "Ebbene" disse Carlini alzandosi,  ed a sua volta avvicinandosi al

      cadavere,  la  mano sulla impugnatura di una pistola,  "c'è ancora

      qualcuno qui che mi disputa questa donna?"

      "No" disse il capo. "E' tua."

      Allora Carlini la prese fra le braccia,  e la portò al di là dello

      spazio illuminato dalla fiamma.

      A mezzanotte la sentinella dette la sveglia, e in un istante tutti

      furono in piedi,  il capo e i suoi compagni. Era il padre di Rita,

      che andava egli stesso a portar la somma per il  riscatto  di  sua

      figlia.

      "Tieni" disse a Cucumetto,  porgendogli un sacco di denaro,  "ecco

      trecento piastre, rendimi la mia figliola."

      Ma il capo, senza prendere il denaro,  gli fece cenno di seguirlo.

      Il vecchio obbedì;  tutti e due si allontanarono sotto gli alberi,

      attraverso i cui rami filtravano i raggi  della  luna.  Finalmente

      Cucumetto  si  fermò mostrando al vecchio un gruppo di due persone

      ai piedi di un albero.

      "Tieni" disse, "domanda a Carlini, egli te ne renderà conto."

      E se ne tornò verso i suoi compagni.

      Il vecchio restò immobile,  gli occhi fissi.  Sentiva che  qualche

      sventura ignota,  immensa,  inaudita gravava su di lui.  Al rumore

      che il vecchio faceva avanzandosi,  Carlini alzò la  testa,  e  le

      forme delle due persone cominciarono ad apparire più distinte agli

      occhi di lui.

      Una  donna  era  coricata  per  terra,  la  testa appoggiata sulle

      ginocchia di un uomo seduto,  chinato su  di  lei;  nell'alzar  la

      testa  quell'uomo aveva scoperto il volto della donna,  che teneva

      serrato contro il  petto.  Il  vecchio  riconobbe  sua  figlia,  e

      Carlini riconobbe il vecchio.

      "Io t'aspettavo..." disse il bandito al padre di Rita.

      "Miserabile!" disse il vecchio. "Che hai fatto?"

      E guardava con terrore Rita,  pallida, immobile, insanguinata, con

      un coltello nel petto.

      Un raggio di luna la rischiarava della sua pallida luce.

      "Cucumetto aveva violata tua figlia" disse il bandito,  "e siccome

      io l'amavo,  l'ho uccisa;  poiché,  dopo di lui,  sarebbe stata lo

      zimbello di tutta la banda."

      Il vecchio non pronunziò una  parola;  solamente  divenne  pallido

      come uno spettro.

      "Ed ora" disse Carlini, "se ho avuto torto, vendicala!"

      E  strappato  il  coltello dal seno della fanciulla,  levandosi in

      piedi,  lo porse al vecchio,  mentre coll'altra mano slacciava  la

      camicia sul petto, offrendolo nudo.

      "Tu   hai   ben   fatto..."  disse  il  vecchio  con  voce  sorda.

      "Abbracciami, figlio mio."

      Carlini si gettò singhiozzando fra le braccia del padre della  sua

      amante: erano le prime lacrime che versava quell'uomo sanguinario.

      "Ed ora" disse ancora il vecchio a Carlini,  "aiutami a seppellire

      mia figlia."

      Carlini andò a cercare due zappe,  e il padre e l'amante si misero

      a  scavar  la  terra  ai  piedi  di una quercia,  i cui folti rami

      dovevano far ombra sulla tomba della fanciulla.

      Quando la fossa fu scavata,  il padre abbracciò  Rita  per  primo,

      dopo  abbracciò l'amante.  Quindi,  prendendola l'uno per i piedi,

      l'altro  per  le  spalle,  la  scesero  nella  fossa.  Ciò  fatto,

      s'inginocchiarono  ai  due  lati  della  tomba,  e  recitarono  le

      preghiere dei morti.  Quando ebbero terminato gettarono terra  sul

      cadavere  sino  a che la fossa fu colma.  Allora,  stendendogli la

      mano: "Io ti ringrazio,  figliolo..." disse il vecchio a  Carlini.

      "Ora lasciami solo.

      "Ma intanto..." disse costui.

      "Lasciami..., te l'ordino."

      Carlini  obbedì:  andò  a raggiungere i suoi compagni si avviluppò

      nel mantello,  e ben presto parve addormentato profondamente  come

      gli altri.

      Il  giorno  prima  era  stato deciso che la banda avrebbe cambiato

      rifugio. Un'ora prima del giorno,  Cucumetto svegliò i suoi uomini

      e  fu dato l'ordine di partenza;  ma Carlini non volle lasciare la

      foresta senza sapere che ne fosse del padre di  Rita.  Si  diresse

      verso il luogo dove lo aveva lasciato.  Trovò il vecchio appiccato

      ad uno dei rami della quercia sulla tomba della figlia.

      Sul cadavere dell'uno e sulla fossa  dell'altra,  fece  allora  il

      giuramento di vendicarli entrambi.  Ma quel giuramento non lo poté

      mantenere perché due giorni dopo,  in  uno  scontro  coi  gendarmi

      romani,  Carlini fu ucciso. Solamente qualcuno si stupì che avesse

      ricevuto una pallottola fra le spalle,  mentre s'era tenuto sempre

      in faccia al nemico. Lo stupore cessò quando uno dei briganti fece

      osservare ai compagni che Cucumetto era dieci passi dietro Carlini

      quando costui era caduto colpito.

      La mattina della partenza dalla foresta di Frosinone aveva seguito

      Carlini nell'oscurità, aveva inteso il giuramento fatto, e da uomo

      cauto lo aveva preceduto.

      Si raccontavano ancora su cotesto terribile capobanda altre storie

      non meno strane di questa. Così da Fondi a Perugia tutti tremavano

      al solo nome di Cucumetto.

      Le  storie  di ogni genere su questo capo bandito formavano spesso

      l'oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa.  La pastorella

      tremava molto a questi racconti; ma Vampa la tranquillava battendo

      in  terra  il  suo  bel  fucile.  Poi,  quando  non  era del tutto

      tranquilla,  le faceva vedere un qualche corvo  posato  sopra  una

      frasca secca di un albero, metteva il fucile alla guancia, premeva

      sul grilletto, e l'animale colpito cadeva ai piedi dell'albero.

      Frattanto  il  tempo  passava,  i due giovani avevano stabilito di

      sposarsi quando Vampa avesse avuto venti anni,  Teresa diciannove.

      Erano  orfani  entrambi;  entrambi  non  avevano altri permessi da

      chiedere che quello dei loro progetti per  l'avvenire.  Un  giorno

      che  parlavano  dei  loro proponimenti intesero due o tre colpi di

      fucile,  quindi un uomo uscì dal  bosco  presso  il  quale  i  due

      giovani  erano soliti far pascolare gli armenti,  e corse verso di

      loro.

      Giunto a portata di voce, gridò tutto ansante:

      "Sono inseguito, potete nascondermi?"

      I due giovani riconobbero ben presto nel fuggitivo un bandito:  ma

      fra  il  bandito  ed il contadino romano vi è una innata simpatia,

      per cui il secondo è sempre disposto a rendere un favore al primo.

      Vampa,  senza dire una parola,  corse ad una pietra,  che chiudeva

      l'ingresso di una grotta, scoprì l'entrata tirando a sé la pietra,

      fece  segno  al fuggitivo di entrare in questo asilo sconosciuto a

      tutti, rimise la pietra e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Quasi

      subito quattro gendarmi  a  cavallo  comparvero  sul  confine  del

      bosco. Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto

      trascinava  per il collo un bandito prigioniero.  Essi esplorarono

      il luogo con un  colpo  d'occhio,  s'accorsero  dei  due  giovani,

      corsero di galoppo alla loro volta,  e li interrogarono; ma questi

      risposero che nulla avevano veduto.

      "E' spiacevole" disse il brigadiere,  "perché quello che cerchiamo

      è il capo."

      "Cucumetto?"  non  poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e

      Teresa.

      "Sì" rispose il brigadiere,  "e siccome  la  sua  testa  porta  la

      taglia  di  mille  scudi  romani,  così  voi ne avreste guadagnati

      cinquecento se ci aveste aiutati a prenderlo."

      I due giovani si guardarono.  Il  brigadiere  ebbe  un  raggio  di

      speranza.  Cinquecento  scudi romani fanno circa tremila franchi e

      tremila franchi sono una fortuna  per  due  poveri  orfanelli  sul

      punto di maritarsi.

      "Sì, è spiacevole" disse Vampa, "ma non abbiamo visto nessuno."

      Allora  i  gendarmi percorsero il luogo in tutte le direzioni,  ma

      inutilmente: quindi disparvero.  Allora Vampa andò a  togliere  la

      pietra, e Cucumetto uscì.

      Egli  aveva visto attraverso una fessura del macigno i due giovani

      discorrere coi gendarmi.  Non aveva  alcun  dubbio  sull'argomento

      della  conversazione:  aveva  letto sul volto di Teresa e di Luigi

      l'inalterabile risoluzione di non consegnarlo.  Cavò di tasca  una

      borsa  d'oro  per  farne  loro dono.  Ma Vampa rialzò la testa con

      fierezza: quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando a tutto

      ciò che avrebbe potuto comprare,  ricchi gioielli,  e begli abiti,

      con quella borsa d'oro.

      Cucumetto era un demonio molto abile, solo aveva preso la forma di

      bandito invece di serpente. S'accorse di questo sguardo, riconobbe

      in  Teresa  una  degna  figlia  d'Eva,  e  rientrò  nella  foresta

      volgendosi più volte,  col pretesto di salutare i suoi liberatori.

      Il  tempo  di  carnevale  si  avvicinava,  il  conte di San Felice

      annunziò un gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma

      aveva di più elegante.  Teresa aveva gran voglia di vedere  questo

      ballo.

      Luigi  domandò  al  suo protettore,  l'intendente,  il permesso di

      assistervi per lui e per lei, nascosti in mezzo alla servitù della

      casa; permesso che venne loro accordato.

      Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata

      a sua figlia Carmela ch'egli  adorava.  Carmela  era  precisamente

      dell'età  e  della  figura di Teresa e tanto bella quanto lei.  La

      sera del ballo Teresa si mise quanto aveva di più  bello,  i  suoi

      spilli  di maggior valore,  i gioielli di cristallo più rilucenti.

      Aveva il costume delle donne  di  Frascati;  Luigi  aveva  l'abito

      pittoresco  del  villico romano in giorno di festa.  Entrambi,  si

      mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori ed i paesani.

      Il festino era magnifico.  Non solo la villa era tutta illuminata,

      ma migliaia di lampioni a colori erano appesi ai rami degli alberi

      nel giardino: ben presto l'onda degli accorsi straripò dal palazzo

      sulle  terrazze,  e dalle terrazze nei viali.  Ad ogni crociera vi

      era una orchestra,  e  rinfreschi  ;coloro  che  passeggiavano  si

      fermavano,  formavano  delle  quadriglie e ognuno ballava dove più

      gli piaceva.  Carmela portava il costume delle donne  di  Sonnino:

      aveva la pettinatura intrecciata di perle,  gli spilli dei capelli

      d'oro e di diamanti,  il busto era di seta turca a gran  fiori  di

      broccato,  la  giubba e le gonnelle di cachemire,  i1 reggiseno di

      mussola delle Indie,  i bottoni della  giubba  altrettante  pietre

      preziose.  Due delle sue compagne portavano il costume delle donne

      della Riccia.

      Quattro giovani dei più ricchi e delle famiglie più nobili di Roma

      l'accompagnavano,  vestiti da contadini d'Albano  di  Velletri  di

      Civita Castellana,  e di Sora.  Questi costumi da contadini,  come

      quelli da contadini erano risplendenti d'oro e di pietre.  Venne a

      Carmela  l'idea  di  fare una quadriglia;  mancava però una donna.

      Carmela guardò intorno a sé,  e fra le invitate non  trovò  alcuna

      che portasse un costume analogo al suo ed a quello delle compagne.

      Il  conte  di  San  Felice le mostrò fra le contadine Teresa,  che

      stava appoggiata al braccio di Luigi.

      "Me lo permettete, padre mio?" disse Carmela.

      "Senza dubbio!" rispose il Conte. "Non siamo a carnevale?"

      Carmela si accostò ad un giovane che l'accompagnava,  e gli  disse

      alcune parole a bassa voce,  indicandogli col dito la ragazza.  Il

      giovane si volse, seguì cogli occhi la direzione della bella mano,

      fece un gesto di obbedienza,  e andò  ad  invitare  Teresa  perché

      venisse  a  figurare  nella  quadriglia  diretta  dalla figlia del

      Conte.

      Teresa sentì come una fiamma salirle al viso.  Interrogò  con  uno

      sguardo  Luigi:  non  c'era  mezzo  di  rifiutare.   Luigi  lasciò

      lentamente  sdrucciolare  il  braccio  di  Teresa,   e  Teresa  si

      allontanò  condotta  dal suo elegante cavaliere,  e tutta tremante

      venne a prendere posto nella quadriglia aristocratica.

      Certamente,  per un artista,  l'esatto e severo costume di  Teresa

      avrebbe  avuto  tutt'altro carattere che quello di Carmela e delle

      sue compagne;  ma Teresa era una  ragazza  frivola  e  civetta:  i

      ricami  sulla  mussola,  le palme della cintura,  lo splendore del

      cachemire l'abbagliavano, il riflesso degli zaffiri e dei diamanti

      la rendevano ebbra.

      Dall'altra parte,  Luigi  sentiva  nascere  in   un  sentimento

      sconosciuto  era  come un dolore sordo che mordesse sulle prime il

      cuore,  e di là corresse fremendo nelle sue vene e  s'impadronisse

      di tutto il corpo.

      Egli non perdeva un momento d'occhio i piccoli movimenti di Teresa

      e del suo cavaliere;  allorché le loro mani si toccavano,  provava

      delle vertigini,  le arterie gli  battevano  con  violenza,  e  si

      sarebbe  detto  che  il  suono  di  una  campana  ripercuotesse le

      vibrazioni nelle sue orecchie.

      Quando  parlavano  fra  di  loro,   quantunque  Teresa  ascoltasse

      timidamente  e  con  gli  occhi  bassi  i  discorsi del cavaliere,

      siccome Luigi leggeva negli occhi  ardenti  del  bel  giovane  che

      erano elogi, gli sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che

      tutte le voci dell'inferno gli soffiassero impulsi di omicidio.

      Allora,  temendo  di  lasciarsi  trasportare  a  qualche pazzia si

      aggrappava con una mano all'albero contro il quale era  appoggiato

      e  con  l'altra stringeva con un movimento convulso il pugnale dal

      manico  intagliato,  che  era  nella  sua  cintura,  e  che  senza

      accorgersene qualche volta cavava dal fodero quasi interamente.

      Luigi era geloso: capiva che Teresa poteva sfuggirgli, trasportata

      dalla   sua   natura  orgogliosa  e  ambiziosa,   e  frattanto  la

      contadinella,  che sulle prime era timida e quasi  spaventata,  si

      mise presto a suo agio.

      Si disse che Teresa era bella.  Questo però non era tutto.  Teresa

      era di quella grazia selvaggia molto più possente  che  la  nostra

      grazia   studiata  ed  affettata.   Ebbe  quasi  gli  onori  della

      quadriglia,  e se fu invidiosa  della  figlia  del  conte  di  San

      Felice, non oseremo dire che Carmela non fosse gelosa di lei.

      Così  a  forza  di  complimenti il suo bel cavaliere la ricondusse

      dove l'aspettava Luigi.

      Due o tre volte,  nel tempo del ballo,  la ragazza aveva volto  lo

      sguardo su lui,  e ogni volta lo aveva visto più pallido,  e con i

      lineamenti  più  alterati.   Una  volta  i  suoi  occhi   rimasero

      abbagliati da un lampo di sinistro augurio, nel vedere la lama del

      coltello  cavata  per  metà dal fodero;  quasi tremando riprese il

      braccio dell'amante.

      La quadriglia  ebbe  momenti  felici;  sembrava  evidente  che  si

      sarebbe  proposto di ripeterla una seconda volta.  Carmela sola si

      opponeva,  ma il conte di San Felice pregò  tanto  teneramente  la

      figlia, che finalmente acconsentì.

      Subito  uno dei cavalieri si lanciò per invitare Teresa,  senza la

      quale era impossibile che si potesse fare  la  quadriglia,  ma  la

      giovinetta era già sparita.

      Infatti  Luigi  non avrebbe sopportato un secondo ballo,  e con la

      persuasione e con la forza,  aveva trascinato Teresa da  un  altro

      lato  del  giardino.  Teresa  aveva ceduto suo malgrado;  ma aveva

      visto il volto alterato del giovane,  e capiva dal  suo  silenzio,

      interrotto da un fremito nervoso, che in lui avveniva qualche cosa

      di  strano.  Lei  pure non era esente da un'interna agitazione;  e

      quantunque non avesse fatto niente di male,  comprendeva che Luigi

      avrebbe  avuto  ragione  di farle dei rimproveri.  Su che?  Non lo

      sapeva, ma si accorgeva che sarebbero stati ben meritati.

      Con gran sorpresa di Teresa stette muto,  e durante  il  rimanente

      della  sera  le  sue  labbra  non  dissero  più una parola.  Solo,

      allorché il freddo della notte aveva costretti tutti gli  invitati

      a  lasciare  i giardini,  e le porte della villa furono chiuse per

      dar luogo alla festa  interna,  ricondusse  a  casa  Teresa.  Poi,

      quando fu sulla soglia, le disse:

      "Teresa, che pensavi, quando ballavi dirimpetto alla contessina di

      San Felice?"

      "Pensavo"  rispose  la  ragazza con tutta la franchezza dell'animo

      suo,  "che darei la metà della mia vita per  essere  vestita  come

      lei."

      "E che ti diceva il cavaliere?"

      "Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e non dovevo dire che una

      parola per ottener questo."

      "Aveva  ragione" rispose Luigi.  "Lo desideri tu così ardentemente

      come dici?"

      "Sì."

      "Ebbene l'avrai."

      La ragazza alzò la testa per interrogarlo,  ma il  viso  era  così

      tetro e così terribile, che la parola le si ghiacciò sulle labbra.

      D'altra parte dicendo queste parole Luigi si era allontanato.

      Teresa  lo  seguì  con  gli sguardi fra le tenebre fino a che poté

      scorgerlo.  Poi quando fu sparito,  rientrò sospirando  nella  sua

      cameretta.

      Quella  medesima  notte  accadde  un  grande  avvenimento  che  fu

      giudicato  prodotto,  senza  alcun  dubbio,   dall'imprudenza  nel

      trafficare  coi  lumi:  la  villa San Felice prese fuoco,  proprio

      dalla parte dell'appartamento della bella Carmela.  Svegliata  nel

      mezzo del sonno dalle fiamme era saltata dal letto, si era avvolta

      nella veste da camera, ed aveva tentato di fuggire dalla porta; ma

      il corridoio per il quale bisognava passare era già tutto in preda

      all'incendio.  Allora rientrò nella sua camera,  chiamando ad alte

      grida soccorso.  Quando la sua finestra posta a  venti  piedi  dal

      suolo si aperse, un giovane contadino si lanciò nell'appartamento,

      la prese fra le braccia,  e con una forza e destrezza sovrumane la

      trasportò sull'erba del prato dove rimase svenuta.

      Allorché riprese l'uso dei sensi, il padre le era vicino,  tutti i

      servitori la circondavano portando soccorsi.  Un lato intero della

      villa fu bruciato ma non importava,  poiché  Carmela  era  sana  e

      salva.

      Venne ovunque cercato il suo liberatore,  ma questi non ricomparve

      più: fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva veduto.

      Quanto a Carmela,  era così turbata che non lo aveva riconosciuto.

      Siccome  il  conte  era  immensamente  ricco,  se  si  eccettua il

      pericolo corso da Carmela,  e che gli sembrò dal  modo  miracoloso

      con  cui  era  stata  salvata,  piuttosto  un novello favore della

      Provvidenza che una disgrazia reale,  fu ben poca cosa per lui  la

      perdita di ciò che avevano consumato le fiamme.

      L'indomani  nell'ora  consueta  i  due  giovani si ritrovarono sul

      confine della foresta.

      Luigi era arrivato per primo. Egli venne incontro alla ragazza con

      molta allegria, e sembrava aver completamente dimenticata la scena

      della sera innanzi.

      Teresa era manifestamente pensierosa,  ma vedendo la  disposizione

      d'animo  di  Luigi,  simulò  un'allegra noncuranza che era la base

      della  sua  indole,   quando  qualche  passione   non   veniva   a

      disturbarla.

      Luigi   prese  sotto  il  braccio  Teresa,   e  la  condusse  fino

      all'apertura della grotta.  Là si fermò.  La pastorella conoscendo

      che  doveva  esserci  qualche  cosa  di  straordinario,  lo guardò

      fissamente.

      "Teresa" disse Luigi,  "ieri sera tu mi dicesti che  avresti  dato

      metà  della  tua  vita  per avere un costume eguale a quello della

      figlia del conte."

      "Certamente" disse Teresa con meraviglia, "ma ero ben pazza quando

      esternavo un simile desiderio."

      "Ed io ti ho risposto: Sta bene, tu l'avrai."